2 febbraio 2020, Palatrieste. Il mondo del basket è ancora sconvolto dalla tragica fine di uno dei suoi interpreti più sublimi, avvenuta a causa di un incidente di elicottero solo una settimana prima. La morte di Kobe Bryant, quel giorno, pareva la sciagura peggiore che potesse abbattersi sul mondo della pallacanestro, ed in effetti, con gli occhi di allora, ci si discostava poco dalla realtà: le immagini del Mamba che scorrevano sul megascreen, i giocatori in campo vestiti di viola, le infrazioni di 8 e 24 secondi commesse volontariamente da Allianz e Dinamo Sassari….c’era di che farsi velare gli occhi dalle lacrime. Quel giorno più di qualcuno, fra i quasi 7000 appassionati di rosso vestiti appollaiati sui gradoni del Dome, di cui oltre 4000 abbonati accorsi ad ammirare le gesta di Kodi Justice e Ricky Hickman, Derek Cook e Akill Mitchell penultimi in classifica, mica Lebron James e Steph Curry a giocarsi l’anello, rischiò l’infarto verso le 20:00, quando il tiro a fil di sirena del Lobito Fernandez, giunto al culmine di una rimonta epica, toccò solo il cotone assicurando due punti vitali alla sgangherata banda di Dalmasson. Dieci minuti dopo, l’Allianz Dome si svuotò per l’ultima volta, travolto da una tragedia purtroppo ben più devastante di quel pur maledetto incidente sulle colline californiane. Da quel giorno, una sorta di giorno del giudizio, partite a porte chiuse, spettatori ammessi con il contagocce, ampliamenti parziali e restrizioni della capienza ad elastico, protocolli, restrizioni, autocertificazioni, controlli, Green Pass, tamponi, distanziamento….. la squadra si salva a tavolino e l’anno successivo, in un’atmosfera irreale fatta di rumori inconsueti e percepibili perfettamente anche dal settore riservato alla stampa lontano mezzo chilometro dal campo come il pallone che rimbalza sul parquet, le scarpe di gomma che stridono, i richiami dei playmaker, la retina violata dai tiri da tre, il canto del cigno dalmassoniano porta Trieste a disputare le finali di Coppa Italia finendo nuovamente settima in classifica a giocarsi i playoff. I risultati arrivano, vengono allestiti roster stimolanti, vestono in biancorosso campioni celebrati come Adrian Banks, vengono confermati beniamini come Fernandez e Cavaliero. Eppure, da quel maledetto due febbraio, sotto i “metal detector” nel frattempo installati all’entrata del palazzetto non sono mai transitate più di 2000 persone a partita, fra i quali 1000 abbonati: meno di un terzo della media del primo anno in serie A, la metà della capienza consentita: il red wall dissolto, il fortino di Via Flavia trasformato in palestra qualsiasi, l’ambizione da basket city al pari di Vilnius, Lubiana o Bologna riposta nel cassetto delle illusioni.
9 giugno 2019, Stadio Rocco. Si è appena conclusa, nel peggiore dei modi, la finale dei playoff che ha portato in serie B il Pisa al termine di una partita difficile ed amara nonostante l’illusorio goal di Granoche, su cui pesano alcune clamorose sviste arbitrali, ed in particolare un rigore netto non fischiato al 90′ che avrebbe assicurato la promozione agli alabardati. La Triestina rimane in C, ma ha il merito di aver riportato allo stadio, per la vittoriosa semifinale contro la Feralpi Salò e lo spareggio con il Pisa, qualcosa come quasi 40 mila spettatori. La delusione è tanta, ma la voglia di riprovarci pervade la dirigenza alabardata, che conferma in sala stampa (con una mossa forse avventata, con il senno di poi) il mister Massimo Pavanel. Quella sera, su queste pagine, scrivevamo così:
La Triestina ci riproverà l’anno prossimo, con la consapevolezza perlomeno di essere riuscita a portare allo stadio nelle ultime due settimane ragazzi e ragazzini che probabilmente finora non l’avevano mai vista dal vivo in vita loro. È da questo ricambio generazionale fra i tifosi che bisogna ripartire. Probabilmente i 19.000 di oggi rimarranno a lungo un numero inavvicinabile, ma se i 4-5000 che realisticamente potrebbero essere la media spettatori al Rocco in serie C saranno per la gran parte “riconferme” dei playoff di quest’anno, l’investimento sul ricambio generazionale del popolo rossoalabardato sarà l’unica grande vittoria di questa stagione. Il concepimento del mitologico “dodicesimo uomo”.
Per fortuna il morbo delle scommesse non ci appartiene: questa, in particolare, l’avremmo persa clamorosamente. L’eredità di Triestina-Pisa si è dissolta quella calda e triste serata di inizio estate, ben prima della pandemia ed in modo indipendente da essa: che poi le porte chiuse, le capienze ridotte e la grottesca protesta no-tutto abbiano amplificato l’effetto devastante di due stagioni eufemisticamente difficili è innegabile, ma il mesto effetto sahariano restituito dai fiammanti ed abbandonati seggiolini di curve e gradinate, le urla disumane emesse dai giocatori appena sfiorati dagli avversari che rimbombano potenti sotto le volte della cattedrale intitolata al Paron, le taglienti battute con relative risate distintamente apprezzate dalle poche decine di presenti alle peraltro scadenti esibizioni rossoalabardate, le affluenze inferiori ai 1000 spettatori di inizio stagione (quota superata di poco nelle ultime partite con la riapertura della Curva Furlan) travalicano quasi completamente la situazione sanitaria nazionale ed hanno anzi radici ben più profonde.
Basket e calcio alabardati, dunque, accomunati dalla imprevedibile ed inattesa disaffezione dei loro tifosi. Diciamocelo: tutti noi, come le dirigenze di Pallacanestro Trieste e Triestina, attendevamo l’allentamento delle misure anti pandemia con la riapertura delle arene, anche se parziale, come una manna, come l’evento che avrebbe magicamente ripopolato gli impianti, riportato il red wall a fare il sesto uomo e gli Ultras a rimanere senza voce anche contro il Giana Erminio. Del resto, le immagini provenienti dal trionfo di Wembley lo scorso giugno e le partite del trofeo calcistico continentale disputate nell’Est e nel Nord europeo, i palazzetti greci, serbi, turchi, russi, americani, ma anche gli stadi della Serie A italiana negli ultimi due mesi, restituivano un’illusione di ritorno alla normalità prepandemica. Ma Trieste, si sa, vive da sempre di dinamiche sociali difficilmente prevedibili tanto sono fuori standard rispetto al resto della nazione. E dunque, nulla di tutto ciò è avvenuto, con pesante danno per le casse della Pallacanestro Trieste ed anche per quelle della Triestina, nonostante la generosità mecenatistica quanto masochistica del presidente d’oltremare.
Arrivare all’origine di tale debacle di pubblico è difficile, anche perché probabilmente vi si giunge per motivi e da punti di partenza diversi. La pandemia, certo: sono in molti ad averne sofferto la violenta ira in prima persona, subendone direttamente o indirettamente conseguenze sulla salute o economiche. Nel primo caso generando un atteggiamento super prudente, di timore nel riaffacciarsi alla vita sociale, alla normalità, all’aggregazione seppure fra mille prudenze ed accorgimenti. Nel secondo, togliendo banalmente le risorse economiche per sottoscrivere abbonamenti o acquistare biglietti il cui costo, negli ultimi due anni, non è di certo diminuito.
Sia allo stadio che al palazzetto, inoltre, quello del pubblico è sempre stato uno spettacolo nello spettacolo. Si va a vedere la partita, magari portando i figli o con tutta la famiglia, non solo per assistere alla competizione, ma anche per divertirsi ascoltando e partecipando ai cori, tornare a casa magari senza voce, confrontarsi (a distanza) con le tifoserie avversarie, far parte di un gruppo, di una comunità. I protocolli, il rischio di daspo in caso di mancato rispetto delle regole, il distanziamento, il divieto (spesso violato) dei riti del tifo organizzato smorzano, quando non azzerano, il piacere di tornare a vedere le partite dal vivo.
Capitolo streaming: le piattaforme, durante i lockdown ed i lunghi mesi di porte chiuse, sono stati l’unica salvezza per gli appassionati di sport. Nei primi tempi assistere ad eventi sportivi senza pubblico restituiva una sensazione strana, come un film muto girato ai giorni nostri. Pian piano ci abbiamo fatto tutti l’abitudine, arrivando ad assuefarci all’effetto playstation: divano, riscaldamento, generi di conforto a volontà, riprese nitide e sempre più fluide a mano a mano che la banda si allargava. Ed inoltre, abbonamenti condivisi (più o meno legalmente) fra parenti e amici con canoni, già di per sé stesso non particolarmente esosi se paragonati ad un biglietto o un abbonamento, ancora più diluiti. Comodità, pigrizia, assuefazione, economicità: la TV UHD a 50 pollici è il vero nemico delle gradinate. Il problema, piuttosto grave, è che sia per l’Allianz che per la Triestina la fetta di budget che arriva dai diritti televisivi è irrisoria, e dunque la mancanza di pubblico “reale” potrebbe far divenire lo spettacolo “virtuale” totalmente insostenibile. Si rischia, in altre parole, di abbonarsi al nulla.
Infine, il necessario mea culpa delle due società, che purtroppo non hanno capito che per riportare la gente nelle arene non sono sufficienti tradizione o colori, o ancora contare sulle rendite di posizione. E’ indispensabile, anche, un’operazione simpatia che purtroppo entrambe stanno clamorosamente snobbando. La Pallacanestro Trieste, intesa come club, è divenuta una torre d’avorio quasi impenetrabile, che dispensa notizie con il contagocce stile politburo di epoca sovietica. E’ comprensibile tutelare la privacy dei giocatori, lo è altrettanto non fornire vantaggi agli avversari. Ma sparire quasi completamente dai media, concedere interviste con il contagocce, non raccontare situazioni, progetti, episodi se non tramite stringati comunicati istituzionali può diventare un boomerang quando la mission è quella di riconquistare persone drogate di comunicazione, social, immagini. Analogamente, le sfuriate dell’AD dell’Unione contro la stampa ritenuta poco amica (anche quando i risultati non ne giustificavano la baldanza), l’atteggiamento talvolta supponente nei confronti dei non allineati quando le scelte di mercato potevano anche essere oggetto di qualche osservazione poco lusinghiera, la scelta di non aprire settori dello stadio storicamente feudo di una fetta importante ed affezionata di tifosi ed infine, ma non meno importanti, un anno e mezzo di risultati super deludenti, non hanno certamente costituito una calamita per il calciofilo (che però, attenzione, non rinuncia al calcio dal vivo, rinuncia proprio alla Triestina: gli spalti dei campi dei dilettanti sono spesso gremiti “in ogni ordine di posto”).
E’ ora, però, che il sole del pubblico torni ad illuminare i due impianti separati curiosamente solo da pochi metri. Non può piovere per sempre: ci sono sempre più vaccinati, la stragrande maggioranza dei potenziali spettatori possiede il Green Pass, tutti, ma proprio tutti, conoscono ormai le regole base di prudenza per evitare di correre rischi inutili. Nessuno dice di tornare alla normalità, perché la normalità che conoscevamo fino al febbraio 2020 è semplicemente stata spazzata via. Nessuno dice di ignorare quello che sta succedendo, con curve di contagi di nuovo in crescita e tensioni sociali ancora ben vive e spesso dirompenti. Però, nei limiti di ciò che oggi è permesso anche dalle regole di buon senso, Trieste e la Triestina hanno vitale bisogno di tornare a poter contare sui propri tifosi. Ne va della loro sopravvivenza, ne va del loro futuro. E ne va anche di una bella fetta della nostra storia.