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Ruzzier fa l’americano, ma è Trento a festeggiare

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Foto AlessiaDoniselli // CIAMILLO-CASTORIA

Non è sufficiente un monumentale Michele Ruzzier da 25 punti e 24 di valutazione a dare l’ultimo pennello ad un’opera d’arte che rimane incompiuta. Trieste in semifinale contro una Trento più lunga, più strutturata, costruita per competere da protagonista in Europa e reduce da cinque vittorie consecutive in un campionato che sta dominando, inizia (come contro Trapani) barcollando, non trova il modo di costruire con raziocinio in attacco e non trova contromisure al dominio incontrastato degli avversari nel proprio pitturato, specie quando approfittano degli incerti aiuti dei lunghi biancorossi sul perimetro che liberano autostrade sotto canestro. Ma la squadra triestina trova comunque il modo di non venire travolta, finisce sì sotto anche di 12 punti con l’inerzia totalmente in mano ad un’Aquila che sembra in grado di chiudere i giochi già nel primo tempo, ma riesce in un modo o nell’altro, affidandosi più ad iniziative sporadiche ed inidividuali di Denzel Valentine e Markel Brown che ad un gioco corale ed organizzato, a rimanere in scia, limando un po’ il gap fino a chiudere il primo tempo a distanza di partita apertissima. Trieste paga la poca chiarezza nel riassestare le gerarchie fra i piccoli in assenza di Colbey Ross, sebbene già nei primi venti minuti si intravvedano i presupposti della serata di grazia del playmaker triestino, ben deciso ad imporsi come vero padrone della squadra. Le otto palle perse in venti minuti dai biancorossi descrivono con precisione il caos offensivo generato dai riassestamenti nella costruzione del gioco. Ma quella che rientra in campo dopo il riposo è una Trieste totalmente diversa, dura ed arrabbiata, e soprattutto molto più propensa a giocare più di squadra, a coinvolgere tutto il quintetto, a pensare di più prima di affidarsi al piano partita che prevede un tiro da lontano o lontanissimo nei primi cinque secondi di azione. Complice una Trento che forse riteneva troppo presto di poter disporre di avversari in difficoltà anche fisica, Michele Ruzzier guida un arrembaggio entusiasmante, detta i ritmi con autorevolezza, innesca i compagni e, soprattutto, fa quello che tutti vorrebbero che faccia in ogni singola partita dall’inizio della stagione: si mette in proprio in attacco, risultando letale sopattutto dai 6.75. Certo Michele paga qualcosa in difesa contro un quintetto che praticamente non schiera italiani (se si eccettua qualche sprazzo poco produttivo di Pecchia e, naturalmente, un Niang devastante che farà le fortune della squadra azzurra), e quando viene attaccato in uno contro uno da Ellis, Cole e Lamb non può che rifugiarsi nel fallo o sperare nella puntualità degli aiuti dei compagni. Trento perde fluidità in attacco e viene sovrastata a rimbalzo, dato più che sorprendente se si considera la serata negativa di Johnson (1 su cinque dal campo e 0 su 2 dalla lunetta, 7 rimbalzi in 18 minuti) ed i pochi minuti concessi a Candussi (solo 9), e Trieste ne approfitta nel suo miglior momento in attacco. Certo, Makel Brown si intestardisce a concedere a Mawugbe la possibilità di allenarsi nelle veloci del volley venendone brutalizzato in modo sempre, cocciutamente uguale nel tentativo di andare dritto per dritto al ferro a difesa schierata, Uthoff prosegue nel suo periodo di blackout prolungato, inaugurato a Brescia e che non ha conosciuto riscosse né contro Trapani né in semifinale. Oltretutto McDermott tocca pochissimi palloni e si prende ancora meno conclusioni, anche se si fa perdonare con una attenta prestazione in difesa. Ciò nonostante, con Valentine, Brown, Ruzzier, McDermott e Uthoff, senza lunghi di ruolo, la squadra triestina sviluppa il suo massimo sforzo e si prende anche un vantaggio di 7 punti. Sul finire del terzo quarto, però, accade quello che in stagione è successo un numero non quantificabile di volte: si fa male il go-to man per eccellenza, un Denzel Valentine di cui riesci a comprendere il valore in campo soprattutto quando in campo non c’è. Il Barba esce, si fa curare, prova a rientrare in apertura di quarto quarto con la partita ancora apertissima a qualunque esito, ma proprio non ce la fa, commette il quinto fallo dopo aver perso un pallone praticamente fermo sulle gambe e torna zoppicando in panchina. Da quel momento, a circa otto minuti dalla fine, con un uomo solo al comando, si spegne la luce: Jamion Christian praticamente non si gira nemmeno più verso la panchina e finirà con lo stesso quintetto che è costretto a schierare e che considera il più affidabile, insistendo nel privarsi dei due “5”. Trento si riprende l’inerzia, ma non riesce a staccarsi mai, perchè Trieste non ha nel suo DNA la parola “resa”, nemmeno se dovesse rimanere con quattro giocatori sul parquet. Anzi, è proprio nell’ultima parte di incontro, con coach Galbiati a ruotare vorticosamente i suoi uomini in modo da arrivare negli istanti decisivi con i migliori cinque freschi e riposati, che Trieste sbanda, perde palloni banali, gioca in apnea ma rimane cocciutamente attaccata alla partita come una cozza su uno scoglio barcolano. Trento, improvvisamente, annusa l’odore del sangue ed eleva a dismisura la pressione difensiva, facendo valere la sua stazza e la sua esuberanza atletica, e le è sufficiente farlo per due o tre azioni consecutive per abbattere la resistenza dei biancorossi, che avrebbero comunque nelle mani, incredibilmente, l’occasione irripetibile di giocarsi l’ultima azione per provare addirittura il tiro della vittoria. Ma quando arrivi a quell’azione vedendo il mondo a pois per mancanza di ossigeno, ci arrivi necessariamente con una lucidità a dir poco latente. La partita finisce lì, con Markel Brown a terra dopo aver perso quell’ultimo pallone ad osservare da sdraiato il contropiede di Trento. Se il successivo tiro per il pareggio da metà campo (peraltro ben preso da Michele Ruzzier che sfiora una tripla de tabela sulla sirena) fosse entrato, con Brooks nel frattempo uscito per cinque falli, i cinque minuti supplementari si sarebbero probabilmente trasformati in un’inutile agonia.
Finisce così, con Trento a festeggiare la conquista di una finale che ha meritato e Trieste ad interrogarsic cosa le manca per poter sedere in modo credibile e definitivo al tavolo delle grandi. Oddio, cosa le manca appare piuttosto chiaro, ma questa stagione è da considerarsi solo il primo passo del percorso che la porterà in quella direzione, e per ora è già rassicurante poter constatare che, in una partita secca, Trieste può giocarsela alla pari con chiunque.
Se da una bruciante sconfitta al fotofinish in semifinale contro la capolista si può prendere qualcosa di buono in prospettiva, è forse il fatto che una Trieste acciaccata e tornata cortissima evita un ulteriore sforzo ravvicinato in finale contro una Milano tornata ad essere una schiacciasassi da Eurolega, risparmiandosi così il rischio di aggravare una situazione fisica che potrebbe avere ripercussioni pesanti in campionato. Discorso difficile da fare nel momento della delusione, è chiaro che tutti avrebbero preferito arrivare fino in fondo alla competizione e giocarsi anche la minima possibilità di mettere una buona volta questo maledetto, sospirato primo trofeo in bacheca, ma quando le risorse umane sono numericamente limitate è anche necessario essere un po’ meno sognatori ed un po’ più pragmatici. Da domani la squadra di Christian potrà iniziare a ricaricare le pile, a recuperare energie, magari a prendersi qualche giorno di riposo ma anche a dedicarsi a recuperare al massimo dell’efficienza Valentine (da valutare il suo infortunio, apparentemente di natura muscolare ad un polpaccio), coinvolgere maggiormente McDermott nei meccanismi offensivi della squadra, capire qualcosa di più sui tempi di recupero di Colbey Ross (e magari approfittare di queste due settimane per iniziare il periodo di rieducazione del pollice operato), e perfezionare un piano B ben chiaro durante la sua assenza, lavorare sullo stato di forma di Justin Reyes, impiegato in modo molto fugace a Torino (solo due minuti in campo contro Trento), reattivo nel suo territorio di caccia preferito in attacco ma ancora troppo piantato a terra in difesa. Ma, anche, fare tutte queste cose tornando in città con la piena consapevolezza di aver conquistato un posto fra le prime quattro con assoluto merito, di essere riusciti a competere con chiunque dimostrando resistenza e carattere, di essersi confermati quella squadra che nessuno, proprio nessuno, sarà felice di incontrare ai playoff. Playoff che, peraltro, sono ancora ben lungi dall’essere conquistati: nel mese di marzo si torna, però, a poter sfruttare l’effetto Palatrieste, con tre partite su quattro da giocare in casa (Treviso, Scafati e, dopo la trasferta a Trapani, la Virtus Bologna).
Trieste si risveglia da un bel sogno, cullato e quasi materializzato. Ma nessun dramma, nessun rimpianto: materiale per migliorarsi, spigoli da smussare, autoanalisi da approfondire, come del resto dopo ogni sconfitta. Ma tanta serenità e la consapevolezza di aver ulteriormente consolidato un entusiasmo tornato palpabile in città. Ah, un’ultima cosa: #ruzzinnaz !