(Photo Credit: Sito ufficiale Pallacanestro Trieste)
Acqua S.Bernardo Cantù – Pallacanestro Trieste 73-83 (12-24, 23-15, 21-19, 17-25)
Acqua S.Bernardo Cantù: Anthony Hickey 14 (5/6, 1/6), Riccardo Moraschini 13 (2/3, 2/5), Filippo Baldi rossi 12 (1/3, 2/8), Lorenzo Bucarelli 11 (2/6, 2/2), Stefan Nikolic 10 (5/8, 0/2), Solomon Young 8 (3/8, 0/0), Luca Cesana 3 (0/0, 1/3), Christian Burns 2 (0/1, 0/0), Nicola Berdini 0 (0/0, 0/1), Carlo Tosetti 0 (0/0, 0/0), Gabriele Tarallo 0 (0/0, 0/0), Curtis Nwohuocha 0 (0/0, 0/0)
Tiri liberi: 13 / 15 – Rimbalzi: 28 9 + 19 (Filippo Baldi rossi 7) – Assist: 17 (Lorenzo Bucarelli 4)
Pallacanestro Trieste: Justin Reyes 32 (6/11, 5/7), Francesco Candussi 11 (1/2, 3/4), Michele Ruzzier 10 (1/2, 2/7), Eli jameson Brooks 10 (5/8, 0/5), Giovanni Vildera 6 (3/7, 0/0), Ariel Filloy 5 (1/2, 1/5), Leo Menalo 5 (1/2, 1/3), Lodovico Deangeli4 (1/1, 0/1), Giancarlo Ferrero 0 (0/0, 0/0), Stefano Bossi 0 (0/0, 0/2), Danny Camporeale 0 (0/0, 0/0)
Tiri liberi: 9 / 11 – Rimbalzi: 38 14 + 24 (Giovanni Vildera 9) – Assist: 17 (Michele Ruzzier 5)
Manca poco. Manca dannatamente poco, eppure nessuno ancora osa nemmeno pronunciare quello che nel cuore dei tifosi triestini sta maturando da un mese a questa parte, da otto partite, otto vittorie progressivamente meno sorprendenti e sempre più capaci di donare una clamorosa consapevolezza nei propri mezzi a giocatori ormai preda di un delirio di onnipotenza che permette loro di vincere in ogni situazione, superando ogni difficoltà, infischiandosene della pressione ambientale in trasferta e non soffrendo di ansia da prestazione in casa. Ora però, ne manca solo una. La più importante, quella decisiva, quella che la Pallacanestro Trieste potrà giocare davanti al suo pubblico per ben due volte, nel malaugurato caso in cui non ne dovesse bastare una sola. E’ un diritto che i biancorossi si sono conquistati con meriti clamorosi, incontrovertibili e sportivamente ammessi anche dagli avversari, a cominciare da Antimo Martino, coach di Forlì, e Devis Cagnardi, guida tecnica di una Cantù tramortita ma ben lungi dall’essere ancora morta.
La bolgia dantesca del Paladesio (anche per la temperatura vicina ai 40 gradi, oltre che per i decibel) spinge per ulteriori 40 minuti la sua squadra alla rincorsa del punto che riaprirebbe la serie, e Gara 2 si rivela subito la partita più difficile dell’intera post season triestina. Non che ci si potesse aspettare qualcosa di diverso, all’ottava partita -la nona, considerando l’importanza della trasferta a Rieti nell’ultima giornata di orologio- giocata in un mese, sempre in apnea, sempre con la consapevolezza che una vittoria o una sconfitta avrebbero potuto significare continuare a sognare o fallire su tutti i fronti, sempre viaggiando, con difficoltà progressivamente maggiori con il crescere del valore delle avversarie. Però, per assurdo, nel match forse giocato peggio, quello più imperfetto, quello più equilibrato, nella prima vera partita da playoff come insegna il manuale, Trieste mostra il suo aspetto migliore, mettendo a nudo con evidenza abbagliante il vero motivo per il quale il resto del mondo grida al “miracolo” mentre giocatori e staff tecnico sembrano invece usciti ogni volta da una tranquilla giornata in ufficio mostrando una consapevolezza ed una sicurezza disarmanti. Trieste è una Squadra, gioca da Squadra, le individualità vengono a galla esclusivamente quando la partita lo esige, ma sempre e comunque in funzione del disegno generale. Un disegno che pare pensato con millimetrica precisione, eseguito magari non sempre nel modo più efficace ma comunque sempre sullo sfondo di una organizzazione diventata minuziosa sia in attacco che in difesa. Tutti e dieci i giocatori danno sempre l’impressione di sapere esattamente quello che devono fare e ci arrivano sempre, magari per approssimazioni ed aggiustamenti successivi. Sono illuminanti le parole di Francesco Candussi a fine gara quando cerca di spiegare la metamorfosi biancorossa: “siamo un gruppo di amici, alcuni di noi si conoscono da tanti anni. Sappiamo bene quanto valiamo, sappiamo che non potevamo essere quelli dei momenti peggiori della stagione, quelli più difficili, quelli che ci hanno portato quasi a perdere il sostegno del nostro pubblico. Ci siamo ritrovati, ci siamo guardati negli occhi, abbiamo deciso, anche senza dirlo, di reagire, di mostrare il nostro valore. Il coach ci ha sfidato, ci ha proposto ed insegnato compiti talvolta spiazzanti e difficilissimi. Il processo di apprendimento non è stato semplice, però ora siamo qui.” Appunto. Trieste, ora, è una Squadra.
Cantù, nelle prime due partite, ha dimostrato di esserlo molto meno. Per carità, è dotata di un roster dalle individualità spiccatissime, Hickey è un attaccante fenomenale, Moraschini e Baldi Rossi se prendono fiducia e sentono l’odore del sangue diventano letali, Nikolic dimostra che la “scuola italiana” ce l’ha solo sulla carta. Però manca di collettivo, le iniziative rimangono troppo spesso individuali, lasciate all’estro ed all’invenzione degli attori principali. Gli impianti di gioco delle due contendenti sono profondamente diversi, ed alla fine non è un caso che in due partite giocate Trieste sia rimasta a condurre per 79 minuti, concedendo un massimo vantaggio di soli tre punti in Gara 1. I biancorossi, al di là dell’organizzazione che tende a coinvolgere tutti e cinque i giocatori in campo sia in attacco che in difesa, dimostrano una volta di più il loro carattere, la loro determinazione, la totale assenza di paura o di esitazione. Riescono sistematicamente a ribattere con la stessa moneta ad ogni fiammata avversaria: tripla del sorpasso? Controtripla immediata. Palla persa in attacco? Palla recuperata in difesa. Rimbalzo offensivo concesso? Rimbalzo offensivo conquistato. Minibreak? Controbreak fulmineo. Alla lunga, pur sviluppando il massimo sforzo, pur giocando discretamente, pur impadronendosi dell’inerzia della partita, quando Cantù vede Trieste barcollare ma non cedere mai ed anzi rimanere costantemente davanti sebbene di pochi centimetri, anche il suo morale segue gambe sempre più preda della stanchezza. Certo, per resistere e reagire sistematicamente ci vogliono gli uomini giusti. E Trieste, pur dimostrandosi, per l’appunto, più Squadra, di queste individualità ne è dotata in abbondanza, ed anzi se le ritrova letali, spietate, freddissime, nei torridi, decisivi, minuti finali. Filloy ne è l’esempio lampante: gioca una partita horror per 30 minuti, poi negli ultimi due infila una bomba ignorante e raccoglie letteralmente dalla spazzatura un pallone vagante ormai perso scoccando un tiro in step back dal pettine che qualcuno con una carriera più corta di vent’anni probabilmente non avrebbe nemmeno osato pensare, specie dopo aver sbagliato praticamente ogni conclusione precedente: sono due punti che per importanza ne valgono sei. A prendersi la squadra sulle spalle nel momento di massima difficoltà (anzi, di massima sofferenza, dal momento che Trieste in difficoltà vera non ci è mai andata) in Gara 2 è nuovamente Justin Reyes: il portoricano, che qualcuno ingenuamente descriveva come “acciaccato” o “troppo soft, sembra che giochi in pantofole” dimostra di essere letteralmente un alieno per la A2 italiana. Probabilmente non è più il giocatore esplosivo di inizio campionato, o più probabilmente non è ancora tornato ad esserlo. Intanto ha cambiato ruolo, giocando più lontano dal canestro e diventando anche solo per questo un rebus per qualunque coach avversario sia in attacco che in difesa. Ma, soprattutto, è dotato di un campionario tecnico che lo rende praticamente immarcabile. E’ ugualmente pericoloso da tre ed in penetrazione, in post basso e dalla media distanza. Segna in ogni modo, subisce una marea di falli, finirà con 32 punti e 37 di valutazione che è inutile commentare. Ma, anche nella sua spiccata individualità, alla fine, realizza la giocata decisiva, quella che chiude definitivamente la partita, non con un tiro in isolamento bensì con un assist: 34” dalla fine, più 4 Trieste e tre secondi da giocare nell’azione. Penetra, attira su di sé quattro avversari, scarica il pallone a Candussi nell’angolo che infila la tripla della staffa, quella che spezza gambe e speranze alla squadra brianzola. Ancora una volta: Trieste è una Squadra.
In Gara 2 viene anche aggiunto un ulteriore mattoncino dal punto di vista tecnico. Trieste inizia con il quintetto divenuto ormai classico con le due torri e Reyes in campo, e tutto lascia presagire il solito dominio nel pitturato, con Nikolic a cercare di arginare Ruzzier, rinunciando così a cercare di contenere anche fisicamente il portoricano. I problemi di falli costringono però rapidamente a cercare soluzioni e quintetti alternativi, talvolta addirittura completamente privi di lunghi. Le rotazioni difensive devono venire riprogrammate, si soffre dannatamente sotto canestro ma si diventa di gran lunga più agili nella transizione e nell’attacco al ferro partendo dall’uno contro uno. Piano partita parzialmente saltato, soluzioni alternative costruite ed adattate alla situazione. Adattamenti che permettono, alla fine, di ritrovarsi il quintetto migliore al completo nei momenti decisivi, con la possibilità di ricorrere nuovamente alle soluzioni originariamente pensate. Rileggendo anche qualche nostro commento dopo partite di metà stagione, persino dopo una vittoria, salta immediatamente agli occhi come l’assenza di agilità nell’adattarsi alle situazioni sia stato uno dei difetti strutturali più evidenti nella stagione, ma anche come l’averlo infine acquisito sia qualcosa di maturato lentamente e giunto a compimento nel momento più opportuno.
Ora sarà necessario un duplice delicatissimo lavoro: recuperare freschezza fisica (per la prima volta nei playoff Trieste è parsa stanca, dovendo far ricorso anche alle ultime riserve di energia nei minuti finali, ai quali è arrivata in ogni caso perfettamente lucida) e resettare completamente il cervello da ciò che è accaduto in Brianza. E’ necessario non illudersi nemmeno per un momento di aver già compiuto la missione contro una squadra capace durante la stagione di andare a vincere praticamente su ogni campo difficile in A2. Era probabilmente una Cantù diversa, di gran lunga più fresca dal punto di vista atletico, ma l’esperienza ed il talento di alcuni dei suoi giocatori non può e non deve far dormire sonni tranquilli a nessuno. A nessuno, tranne all’ambiente, tornato a ribollire di passione e di attesa: le imprese a ripetizione della banda di Jamion Christian hanno compiuto il miracolo di ricreare qualcosa di molto simile all’atmosfera del giugno 2018. Lunedì sera il PalaTrieste sarà pronto alla battaglia, così come la squadra che ha imparato, infine, ad amare. Manca poco, manca dannatamente poco…..