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Mai dire ciuff

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Fenomeni parastatali: storia tragicomica delle fregature d’oltreoceano venute a Trieste per insegnare basket e rispedite velocemente in patria con una valigia piena di Malvasia, porcina e sardoni impanati

Tanto vale sdrammatizzare…non ce ne voglia nessuno, noi per primi siamo caduti in numerosi tranelli ed illusioni, ottiche e non, descrivendo nuovi arrivati sconosciuti ed acclamati, spesso resi superstar dai maledetti highlights di YouTube, come dei veri e propri crack, game changers, elementi capaci di dare il boost alla Pallacanestro Trieste verso i vertici nazionali ed i più improbabili trofei.

Ultimamente si fa un gran parlare di un giocatorino giunto dalle parti di San Giusto con credenziali da ex NBA e vice Teodosic, dotato di qualità cestistiche ed umane da All Star, venuto a risollevare con la sola imposizione delle mani le sorti di una Pallacanestro Trieste decimata da defezioni ed infortuni. Che la convocazione all’All Star Game la meriti piuttosto il suo geniale procuratore, più che il povero Alexander (divenuto in poco tempo, ed ingiustamente, il parafulmine di ogni piaga nel frattempo abbattutasi sulle vicende cestistiche giuliane), appare piuttosto evidente. Ma il buon Ty Shon, che immaginiamo malinconico con togna, ami e vermi su uno scoglio di Barcola a dedicarsi al suo hobby, nonché sua migliore abilità, non è certo la prima sola affibiata nei decenni agli ineffabili scout biancorossi. E probabilmente non è nemmeno la peggiore, in rapporto ai danni causati.

John Campbell

John Campbell con gli HG

Ci sono ricordi relegati nel cassetto degli incubi che forse sarebbe stato meglio lasciar riposare nell’oblio, ma si sa, noi triestini abbiamo un fondo masochistico che ci porta invariabilmente a crogiolarci nel peggio del peggio, per poi lamentarcene sonoramente. Ed è così che non possiamo che tornare indietro di ben 41 anni, per ripescare l’atesignano di questa elite poco invidiabile: estate 1981, l’Hurlingham (inteso come sponsor neroverde) se n’è andata, portando con sé Rich Laurel e l’epoca naif, dei pantaloni a zampa, della disco music e dei coca party stile Detroit. C’è ancora Dado Lombardi ed il nucleo storico italiano, ora vestito dai verniciai dell’OECE (che curiosamente, nonostante produca colori, impone una livrea tutta nera o tutta bianca), per provare una difficile risalita in A1 viene scelto Jim Abromaitis, un marine proveniente dal Real Madrid al quale, dopo la difficilissima ed evidentemente infruttuosa ricerca di un pivot che giochi a pallacanestro, viene affiancato un ragazzone classe ’58 vagamente sovrappeso e dall’aria un po’ svagata, come se fosse costantemente sorpreso dalla bellezza del mondo circostante. Il curriculum è di tutto rispetto: si è addirittura esibito con gli Harlem Globetrotters, come gregario certo, ma facendo pur sempre parte del più grande, variopinto e finto carro carnevalesco nella pallacanestro mondiale. Riuscire a trattare i palloni come fossero arance non gli permette però quasi mai di farne una giusta: schiaccia, eccome se schiaccia, ma se prova qualsiasi altro tipo di conclusione da più di 5 cm dal canestro rischia di mancarlo completamente. Lombardi, noto per la sua pazienza costantemente in riserva, la esaurisce dopo cinque minuti della prima partita. John ha Il tempo di realizzare un incredibile trentello contro la Sacramora Rimini, frutto di 15 schiacciate, ed il biglietto aereo gli viene consegnato in tutta fretta. Al suo posto, dai Pistons, arriva Wayne Robinson, e la stagione si conclude con una insperata, quanto poco pronosticabile, promozione in A1.

George Wenzel & Ken Johnson

George Wenzel… o era Andreas?

Già le date della stagione, 1986/87 sono di per sé sufficienti a far salire l’acidità di stomaco ai tifosi triestini più datati. E’ l’hannus orribilis della pallacanestro triestina (purtroppo solo il primo, ma allora non si sapeva ancora): in primavera era già arrivata per la Stefanel la retrocessione in A2. Per provare l’immediata risalita paron Bepi ingaggia un tecnico montenegrino fra i più acclamati in Europa, un filiforme lungo di nome Earl Jones, prima scelta dei Lakers nell’84, e, purtroppo, un inquietante bianco classe ’61 di nome George Wenzel: non una guardia, non un’ala, non un centro. Non un giocatore di basket, ed infatti in molti si chiedono se fosse arrivato per errore a Trieste un omonimo sciatore che in quegli anni spopola in coppa del mondo, ma che però di nome fa Andreas. Non ha evidenti qualità cestistiche, è privo di personalità, Tanjevic lo relega saggiamente in panchina dimenticandosene in modo precipitoso. C’è il tempo per l’unico convinto applauso di Chiarbola alla peggior fregatura mai presa sul mercato: l’ineffabile George, ripiegando in difesa, incoccia frontalmente con uno degli arbitri facendolo prima decollare e poi stramazzare al suolo stordito. Standing ovation e check in a Ronchi in poche ore. Il suo sostituto non migliora certo la situazione: il lungo Ken Johnson è probabilmente dotato del QI cestistico fra i più bassi fra tutti i giocatori mai transitati a Chiarbola o in Via Flavia e, si scoprirà in seguito, anche del QI tout court. Capriccioso e viziato, indolente e sovrappeso, sarà uno dei maggiori colpevoli del drammatico epilogo della stagione. Peraltro, lui lo spareggio di Bologna contro Gorizia nemmeno lo giocherebbe: alla sirena dell’ultima di campionato, non si sa se per la mancata comunicazione dell’appendice a Piazzale Azzarita o per il fatto che, pur essendone a conoscenza, il ragazzone se ne infischi allegramente, la sua valigia è già pronta. Grazie ad una soffiata i dirigenti triestini riescono però ad intercettarlo al check-in dell’aeroporto in occhiali da sole, camicia hawaiana e bermuda destinazione USA, a rapirlo con la forza, incappucciarlo e portarlo a Bologna con la squadra. Il rumore del rimbalzo che, nelle fasi decisive del match, gli incoccia casualmente sul testone mentre lui vaga annoiato in area, risuona ancora al Paladozza nelle notti estive, e viene scambiato dai bolognesi per il campanone di San Petronio.

Pablo Laso

Pablo Laso fra i ragazzi del Ricreatorio Pitteri, Trieste 1998

E’ il 1998. A giugno era stata ancora una volta Gorizia a rovinare la festa ai tifosi triestini, vincendo la finale playoff al Palabigot e volando in A1: sarà il canto del cigno per il basket di vertice goriziano, ed un accesissimo derby che da sempre si traduceva in mazzate fra tifosi si trasforma velocemente in un amarcord custodito con affetto su entrambe le sponde dell’Isonzo. La maglia arlecchino voluta da Genertel (con buona pace di chi oggi protesta per la sporadica tinta unita azzurra di Allianz) lascia spazio al bianco di Lineltex. In panchina siede “Caesar” Pancotto, il tecnico più acclamato, reclamato ed evocato della storia della Pallacanestro Trieste. La mancata promozione brucia, e si vuole allestire una squadra in grado di fare da subito il gran salto. Arriva il funambolo immarcabile Michael Williams, l’ala con data di scadenza Brian Shorter e, come playmaker, viene chiamato uno spagnolo trentunenne con un curriculum, tutto sommato, importante: una sessantina di presenze nella Roja e cinque anni consecutivi da leader degli assist nel campionato spagnolo. A Ronchi, però, appare un signore stempiato, alto poco meno di 1 metro e 75, dal fisico simile ad un boiler. A qualcuno viene spontaneo chiedere a quell’impiegato del catasto di Madrid come mai avesse accompagnato il figlio fino in riva all’Adriatico. Quell’impiegato, purtroppo, si rivela proprio lui, l’ineffabile tracagno imposto all’esigente platea di Chiarbola per ben 18, lunghissime partite. Molti fra gli attempati ed appesantiti protagonisti dei campionati minors triestini, ammirandone la flemma e gli uno contro uno bradipeschi, si danno di gomito confortandosi l’un l’altro con un rassicurante “se ce l’ha fatta lui….” continuando poi a battagliare in Prima Divisione fino a 72 anni. Laso produce 4 punti di media tirando con il 25% da tre e, soprattutto, piazzando la bellezza di 1 assist a partita. Alla fine Pancotto, esausto per le prestazioni dell’impiegato e per i continui cori “Ivo Ivo” che piovono imperterriti dagli spalti, gli preferisce nel ruolo Nello Laezza e lo rispedisce a far gare di tapas, sostituendolo con il ventiduenne serbo Srdjan Jovanovic, accreditato della classica garra balcanica e di una fidanzata modella di per sé sufficiente a giustificarne l’arrivo a Chiarbola. Nel frattempo Frank Garza, fumettistico padrone del vapore, sostituisce Shorter con il suo rientrante cognato Teo Alibegovic. La stagione si conclude con l’agognata promozione. Pablito, intanto, fa suoi molti degli insegnamenti del coach e li mette evidentemente a frutto. Dodici anni più tardi, dopo altre 6 stagioni da giocatore in Spagna, viene nominato capo allenatore del Real Madrid, panchina dalla quale non verrà più rimosso fino ai giorni nostri. La vera rivincita dei nerds.

Hristo Zahariev e Isahia Grayson: i due poco memorabili playmaker, fra i meno performanti della storia triestina, appartengono all'”epoca di mezzo”, quella successiva al ritorno in A2 del 2012 e precedente al decollo targato Alma. E’ un periodo in cui la società fa le nozze con i fichi secchi, e quindi l’indubbia inconsistenza dei due non può essere definita una vera e propria sola, anche se entrambi meritano almeno una citazione: in quegli anni il club si deve accontentare di ciò che trova in rapporto al budget, e purtroppo, in quelle due stagioni trova loro. Per dire la verità, in uno sport il bulgaro si dimostra capace, ma purtroppo è quello sbagliato: la boxe praticata al di fuori del ring, per di più motivata da pretesti omofobi, non è esattamente una disciplina olimpica, e così il focoso balcanico, per evitare guai peggiori ed anche per evitare di continuare a subirne le prestazioni, viene rispedito in fretta e furia, senza tanti complimenti, al suo ridente paesello. Curiosamente, invece, l’americano è l’unico di questa hit parade di ciofeche baskettare ad aver completato una stagione intera, quella precedente: affiancato a Murphy Holloway, personaggio dalla personalità e dal fisico debordante, il mite Isahia, che pesa probabilmente meno della metà del compagno, ne viene totalmente (e letteralmente) oscurato. Per dire la verità, Grayson viene oscurato anche da uno che qualcosina negli anni a venire la combinerà: Stefano Tonut proprio quell’anno spiccherà definitivamente il salto verso il Gotha della pallacanestro nazionale.

Jon Emore e Ricky Hickman

Jon Elmore (terzo da sinistra) ai tempi della High School

Nella seconda stagione dopo l’ultimo ritorno in serie A, durante l’estate del 2019, Trieste, dopo aver temporaneamente schivato il dramma dello scandalo Alma, deve affrontare il rebus portato in dote da un budget dimezzato rispetto alla stagione precedente. Non può più permettersi Wright e Dragic, Mosley, Knox e Sanders ed è costretta ad andare alla ricerca di poco costosi, ma promettenti, prospetti da oltre oceano. Ne viene individuato uno che su YouTube sembra il classico local hero di stampo americano, una sorta di funambolo bianco alla John Stockton, ma con più fisico, nato a Charleston, paesino della profondissima provincia americana. Vera leggenda a Marshall University dove viene acclamato come GOAT, il suo ingaggio fra i professionisti, sebbene avvenga a Trieste e non in NBA, viene salutato sui social dell’università come un trionfo, e già questo dovrebbe destare qualche leggerissimo sospetto. Eh già, perchè Marshall, a pochi chilometri da una casa dalla quale Jon non si è mai allontanato in vita sua, non è esattamente Duke o UCLA, essendo molto più simile al pur celebre Faber College di Animal House. Minuscolo ateneo perso nella pianura agricola sul confine fra West Virginia ed Ohio, non appartiene certo alla Division One e non partecipa mai al March Madness, il torneo ad eliminazione diretta che in ogni mese di marzo porta alla proclamazione del campione NCAA. In altre parole, in pochi si rendono conto che essere il GOAT di Marshall è un po’ come essere una vecchia gloria del CUS Molinella. Il giovane rookie, a dire la verità non certo assecondato da un roster in grado di accompagnarlo all’esordio fra i grandi, scende al Dome di via Flavia armato della più grande buona fede e di un ancor più grande ego. L’impatto frontale con i professionisti europei, vecchi mestieranti che lavorano di gomito e di scaltrezza, è uno dei più traumatici ai quali le assi del parquet triestino abbiano mai assistito. In coppia con il connazionale Kodi Justice viene da subito, e da allora, elevato dal pubblico triestino come simbolo vivente dell’antibasket. Fin dal precampionato il buon Jon inizia una personale baruffa con il canestro, rifiutandosi per principio di centrarne la retina. Fernandez e Cavaliero provano prima a farne da balia, poi con un paio di genitoriali pacchette sulla schiena lo riducono a più miti consigli confinandolo a sventolare asciugamani dalla panchina. Finché, in una mitica partita contro la Virtus, il Nostro incappa in una prestazione appena sufficiente, centrando forse casualmente, forse no, qualche tiro da tre. In sala stampa, nonostante la pesante sconfitta, preso da un rigurgito di Marshallite, si autodefinirà la miglior guardia del campionato, attirando su di sé l’ironia e i bonari scuotimenti di capo degli astanti. E’ davvero troppo: la stagione, non certo solo per colpa sua, si tramuta velocemente in un vero calvario che rischia di finire in tragedia. C’è da intervenire prima che sia troppo tardi. Viene individuato per il rookie un buen ritiro in A2, sempre sul mare ma a distanza di sicurezza, i 1550 km che separano Trieste da Capo d’Orlando.

Ricky Hickman in Piazza Carlo Alberto

A quel punto avviene il capolavoro, la madre di tutte le sole: c’è bisogno, per sostituire Elmore, di un giocatore esperto, che conosca già l’Europa ed il campionato italiano, di grande personalità e capacità balistiche. L’identikit risponde ad un nome altisonante: il trentacinquenne Ricky Hickmann ha un palmares impressionante, ha vinto un campionato in Turchia ed uno in Israele, un numero infinito di coppe nazionali, un’Eurolega a Tel Aviv, è MVP nelle Final Four di Coppa Italia con l’Olimpia Milano. Il classico crack, al quale si arriva grazie ai buoni uffici di Marco Debenedetto, team manager che lo aveva portato in Italia anni prima a Casale. Il salvatore della Patria, però, non si allena da almeno sei mesi, ed arriva direttamente a Trieste dal divano di casa. Alla sua veneranda età il curriculum non è sufficiente ad evitare di venire brutalizzato dai meno titolati, ma più cattivi, maniscalchi della palla a spicchi nostrana. Non centra un bersaglio nemmeno per errore, perde palloni a ripetizione, non corre, sembra un nobile dell’alta società costretto a fare il manovale. Fernandez e Cavaliero girano gli occhi verso l’alto rassegnati quando capiscono che i loro straordinari non sono di certo terminati. A Brescia, sopra di uno con la palla in mano a cinque secondi dalla fine, Ricky consegna direttamente il pallone dalla rimessa agli avversari, che ringraziano andando a vincere da soli in contropiede. Il campionato assume toni drammatici con la squadra a rischiare seriamente la retrocessione. Ciò che accade da lì a pochi giorni è storia: squadra e Hickman vengono “salvati” da una tragedia vera, il campionato viene annullato ed il nonnetto può tornarsene a fumare la pipa davanti al caminetto nella Carolina del Nord. Per la cronaca, oggi Jon Elmore, dopo un mesto peregrinare nelle più improbabili leghe dell’Est Europeo, è considerato uno dei playmaker più forti nel campionato lituano. Hickman accompagna orgoglioso i nipoti all’asilo.

Forza Ty Shon, come vedi non sei da solo. Ne abbiamo viste tante, da queste parti, e tu hai tutto il tempo, e la possibilità, di provare ad uscire da questa lista. E non prendertela, qui a Trieste, oltre ad essere masochisti, siamo anche capaci di tanta autoironia. Senza offesa…

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