(Photo Credit: ufficio stampa Pallacanestro Trieste)
Quando qualcuno si chiede perché, nell’estate che segna il kickoff di un nuovo ciclo, un progetto duraturo che porti la Trieste cestistica nel futuro, uno degli scout più esperti d’Europa va a scegliere come primo tassello un giocatore trentaseienne che nelle ultime stagioni aveva mestamente sventolato asciugamani in una palestra mestrina, può mettersi comodo e riguardarsi l’intero quarto di finale giocato da Jeff Brooks contro Trapani, di cui la rubata ed il buzzer beater vincente sono solo la punta dell’iceberg. Brooks la Coppa Italia l’ha già vinta due volte, ma non è solo la sua esperienza in questo genere di partite senza un domani a renderlo a mani basse il match winner del quarto di finale contro Trapani. Non lo sono nemmeno le fredde statistiche che riporta il tabellino a fine partita, che a ben vedere non parla di una prestazione numericamente clamorosa. Invece, vederlo catechizzare i compagni più indisciplinati durante i time out (Denzel Valentine), vederlo dialogare in campo con i go-to men per dare loro coraggio o dare preziose indicazioni, lo rendono il leader occulto, l’allenatore in campo, un vero e proprio tesoro cestistico restituito nella parte finale della sua carriera alla pallacanestro italiana.
Santificato il matador, c’è però da inchinarsi davanti al carattere di una squadra che disputa nell’attesissimo quarto di finale a Torino forse la peggior partita della stagione dal punto di vista tecnico, con percentuali da oltre l’arco che si fermano al 25%, che la vede soccombere a rimbalzo, che la vede rincorrere dopo un inizio raccapricciante in attacco e perdere pericolosamente di mano l’inerzia della partita a due minuti dalla fine. Ma che è anche capace di mettere subito una pezza nel primo quarto all’emorragia offensiva difendendo in modo feroce e causando una marea di palle perse agli avversari, approfittando in modo cinico all’uscita prudenziale di Petrucelli quasi subito gravato di due falli e, soprattutto, di Justin Robinson vittima di un infortunio che pareva ben più grave di quanto si è fortunatamente dimostrato. Trapani senza il suo leader difensivo e priva del suo più credibile ed imprevedibile terminale in attacco sembra dimezzata, e nonostante un ottimo Alibegovic, un Horton dominante soprattutto a rimbalzo, ed un Galloway che cresce con il passare dei minuti, subisce l’onda di ritorno di una Trieste magistralmente orchestrata da Michele Ruzzier, che sarà anche l’antitesi di Colbey Ross nel modo di interpretare il ruolo, ma nei 28 minuti passati sul parquet è un vero e proprio manuale di costruzione, organizzazione e gestione dei ritmi, in equilibrio fra sfrontatezza e razionalità. A dire la verità, al netto dei soliti eccessi che rischiano di farne deragliare la prestazione, anche Denzel Valentine si crogiola nell’innescare i lunghi, e sceglie a ripetizione il suo compagno californiano come destinatario prioritario dei suoi confetti. Johnson beneficia con gli interessi della crescita dell’intesa con i piccoli, e diventa di partita in partita più credibile come rollante: è di gran lunga più pericoloso in movimento che cercato spalle a canestro (movimento che richiede una quantità di tecnica di base che ancora latita), e sia Michele che Denzel lo hanno capito perfettamente, trovandolo spesso al centro di autostrade che portano direttamente al ferro. L’alter ego nel reparto gli è complementare: la pericolosità dal perimetro di un centro che preferisce giocare lontano dal pitturato come Francesco Candussi costringono gli avversari ad allontanare i loro lunghi dall’area per cercare di andare a contrastare le conclusioni, e dal momento che Repesa rinuncia per scelta al Tibor Pleiss, il solo Horton non può certo sdoppiarsi, finendo per sfinirsi.
Valentine è il solito imprevedibile pazzo, capace di passare un pallone sulle caviglie di un compagno e, nell’azione successiva, di inventarsi una tripla da nove metri. Anche per lui vale il discorso fatto per Candussi: uno del genere -che segni o no- non lo puoi battezzare, ma raddoppiarlo o triplicarlo implica necessariamente scelte e sacrifici difensivi che alla lunga diventano decisivi.
Sono, però, anche 38 minuti di passione per Markel Brown e Jarrod Uthoff, i protagonisti biancorossi forse più attesi nella kermesse, che però litigano con la partita senza riuscire mai ad interpretarla nel modo corretto. Salvo, poi, infilare con freddezza glaciale i tiri liberi gentilmente offerti dalle scelte suicide di Yeboah e Brown (quello trapanese) che vanno a commettere fallo ad un chilometro dal proprio canestro con la squadra in bonus, regalando così a Trieste la possibilità di limare progressivamente il gap a cronometro fermo quando tale gap pareva oggettivamente incolmabile sul -7 a poco più di due minuti dalla fine.
L’assenza di Ross costringe coach Christian a ricercare riassestamenti dei quintetti finendo per schierarne di curiosi: in particolare uno, molto alto e fisico con McDermott, Reyes, Johnson, Valentine e Uthoff in campo contemporaneamente, permette di arginare lo tsunami sotto canestro generato da Horton e Alibegovic. In attesa del rientro del play americano, comunque, ci sarà ancora moltissimo da lavorare in questo senso.
Ma, alla fine, possiamo passare il Valentine’s day a ricercare ed analizzare tutti i risvolti tecnici di una partita rocambolesca senza venire a capo di un risultato apparentemente inspiegabile. In verità, Trieste vince su Trapani perchè si dimostra più squadra, perchè è capace di reagire collettivamente ai momenti di down senza doversi affidare per forza all’uomo solo al comando (al Justin Robinson della situazione, per intenderci), perchè non si arrende letteralmente mai, perchè l’avversario ha di fronte giocatori che barcollano, sbandano, subiscono canestri e trash talking ma rimangono in piedi, schiena dritta, muso duro, determinazione incrollabile nascosta dietro una patina di disarmante tranquillità. Una determinazione che permette loro di andare a deviare e controllare il pallone che avrebbe dovuto regalare la vittoria ai più forti ma che due secondi dopo attraverserà la loro retina. A sospingere il palleggio di Jeff Brooks nella cavalcata vincente è un’intera squadra, un’intera città che da decenni attende di vivere momenti come questo. Che anche di giovedì sera a metà febbraio si sciroppa 700 chilometri per rimanere senza voce alle 11 di sera, e che fra due giorni si perderà di buon grado la finale di Sanremo perchè, di finali, ce n’è un’altra da conquistare e da giocare domenica pomeriggio.
Trento, vittoriosa non senza fatica nell’altro quarto di finale contro Reggio Emilia e presente a bordo campo per studiare i prossimi avversari, si gode ben poco la sconfitta della squadra sulla carta più pericolosa. Si troverà infatti di fronte in semifinale una serpe velenosissima, che non sai mai se, quando e dove andrà a morderti se solo pensi di poterti permettere di abbassare la guardia o di sottovalutarla.