tsportinthecity

L’Argentina è finalista in Coppa Del Mondo

Tempo di lettura: 3 minuti

Nel luglio 1990 in Italia a capo del governo c’era Giulio Andreotti, simbolo di una Prima Repubblica ormai al crepuscolo, anche se Mani Pulite avrebbe lasciato ancora qualche mese di scorribande al vetusto establishment del secondo dopoguerra. Falcone e Borsellino si illudevano che le cose potessero ancora cambiare. La bandiera dell’Unione Sovietica sventolava caparbia sul pennone più alto del Cremlino. Freddy Mercury era ancora vivo e, sebbene i fremiti del dilaniamento etnico e del nazionalismo omicida scuotessero da tempo le repubbliche jugoslave, noi, gente di confine abituata da decenni ad oltrepassare quella linea convenzionale che ci separava dalla costa istriana, non ce ne rendevamo ancora conto, o più probabilmente sceglievamo di ignorare l’argomento continuando a goderci le nostre tagliatelle ai datteri di mare in quella konoba a buon prezzo sul litorale di Orsera. Saddam Hussein non aveva ancora invaso il Kuwait, anche se non ci avrebbe messo molto, mentre le torri del World Trade Center rendevano la skyline di New York l’icona più rassicurante del sogno americano. Certo, pochi mesi prima era crollato a picconate il Muro di Berlino e la Romania si era affrancata con le armi dal suo tiranno, ma erano segnali che facevano presagire solo tempi migliori e luminosi e poi, tutto sommato, la DDR ed i suoi atleti stranamente muscolosi esistevano ancora a ricordarci il valore di un buon allenamento. I peccati di Diego Armando Maradona non si erano ancora trasformati nel pasto succulento di tabloid e nemici di ogni sorta, e lui era solo e semplicemente l’avversario sportivo numero uno, il più temuto ed inviso agli italiani non napoletani. I calci di rigore, infine, non si erano ancora trasformati nella maledizione capace di tenere in scacco per un intero decennio la nazionale italiana, strozzando l’urlo in gola a milioni di tifosi azzurri in ogni singolo appuntamento mondiale.
Quasi un mese prima Edoardo Bennato e Gianna Nannini avevano inaugurato la Coppa del Mondo di Calcio cantando per la prima volta a San Siro quello che sarebbe diventato un tormentone in tutte le radio, in spiaggia ed in televisione. Ma non furono certo solo quelle note a caratterizzare l’Estate Italiana. Come quando, dopo decenni, si riassapora un gusto dimenticato, si riascolta in macchina il ritornello di una vecchia canzone o si fissa una vecchia fotografia ritrovata per caso e ne vengono evocati ricordi, sensazioni, vecchi amori, pensieri, trionfi, cadute, dolori o affetti che ridiventano improvvisamente reali e presenti come se il tempo non fosse passato, così oggi la rassicurante ed emozionata voce di Bruno Pizzul che racconta le gesta esaltanti di un mese di vittorie azzurre, segnate dalle serpentine di Roberto Baggio e dagli occhi allucinati di Totò Schillaci, dagli scambi stordenti fra Mancini e Vialli e da decine di migliaia di tricolori sventolati allo Stadio Olimpico così come nelle strade delle nostre città, mi riporta come una macchina del tempo a quell’estate che avrebbe cambiato un po’ tutto, anche se io ancora non lo sapevo.
Mi riporta alla trepidazione mista a timore con la quale mi apprestavo ad assistere alla semifinale di Italia ’90 contro l’Argentina, all’ostentata indifferenza con la quale trascorsi quel pomeriggio di attesa a bere birrette e scherzare sul lungomare di Barcola, al batticuore che mi impedì di togliere le mani dagli occhi durante la serie finale dei rigori stipato in un soggiorno bollente assieme agli amici di sempre. All’ultima estate della mia post adolescenza priva di responsabilità, all’ultimo atto di un mondo già feroce, ma che mi illudevo essere amico ed innocente, e che di lì a poco sarebbe diventato improvvisamente pauroso e beffardo. Quando quella voce così familiare e gioiosa che sapeva di sole e di mare, di cieli sereni e di gite sul Carso, di profumo di grigliate e di cinema all’aperto si trasformò in una mesta descrizione di come no, in finale non ci saremmo andati noi ma l’odiata banda di Maradona, beh, “L’Argentina è finalista in Coppa del Mondo”, frase incisa nella nostra mente come la voce nasale di chi la pronunciò, divenne da quel momento lo spartiacque con la mia età matura.
Quando incrociai Bruno Pizzul a Cormons un paio di anni fa, mi rividi, giovane ed incosciente universitario, con le mani sul viso incapace di sbirciare quelle immagini che raccontavano la fine della mia inconsapevolezza di un mondo che non mi importava di conoscere, “immagini che non avremmo mai voluto commentare”, e con loro tornarono per un momento a trovarmi anche gli affetti che da allora iniziai a perdere. Non lo salutai, non gli dissi nulla, non gli chiesi un autografo o una foto. Sorrisi ed incrociai solo i suoi occhi per ringraziarlo idealmente del viaggio nel tempo che la sua voce mi permette ancora oggi di compiere.