di Francesco Freni
Guardando una vecchia partita delle Olimpiadi del 2004 viene spontaneo chiedersi quanto la Generacion Dorada abbia potuto ispirare un ragazzino di Rio Tercero sotto l’aspetto sportivo ed umano per farlo diventare il giocatore di trent’anni che è oggi
Guardarli è stato fondamentale. L’altro giorno al media day della Lega mi è stato chiesto qual è il giocatore che mi ha influenzato maggiormente, io ho risposto subito senza esitazione: tutti i componenti di quella squadra, quelli che hanno vinto l’oro alle Olimpiadi. Loro sono quelli che hanno portato il basket dell’Argentina dov’è oggi. Il rispetto che vedo per il giocatore argentino in generale, non solo in Europa ma in tutto il mondo nasce da loro, e per me è motivo di grande orgoglio. Sono stati fondamentali nella mia ricerca del modo di giocare ad alto livello in Europa. Ho avuto anche la fortuna di conoscerne personalmente tanti, e con alcuni ho ancora oggi una relazione, e posso dirti perché lo so: non sono diventati quello che sono solo per quello che sono riusciti a fare dentro il campo, ma anche perché sono delle persone speciali. Sono delle persone diverse, se capisci quello che voglio dire. Hanno il combo completo, sono persone intelligenti anche fuori dal campo, sempre alla ricerca di come migliorarsi e di crescere anche in modi alternativi: sono stati degli innovatori nella dieta, nel modo di dormire meglio per arrivare a giocare meglio, aspetti che in quel periodo erano impensabili. Loro ci hanno aperto la strada e mostrato come si fa
Però è abbastanza incredibile come in un paese come l’Argentina, dove il calcio è tutto, è vita, voglia di riscatto, è una religione, è lo sport che tutti i ragazzini hanno praticato, praticano o prima o poi praticheranno, ci sia da vent’anni a questa parte una concentrazione così clamorosa di campioni nel basket. Come te lo spieghi?
Sicuramente parte da un senso di passione e di orgoglio tipico dell’argentino, che vuole dimostrare sempre chi è. Succede anche nel calcio e nello sport in generale, ma non basta: servono anche altre componenti. Secondo me è stata una combinazione di tanti aspetti, compresa una certa dose di fortuna, se vogliamo chiamarla così, di avere tanti campioni di così alto livello tutti insieme nello stesso momento. Poi sono stati bravi loro a sfruttare quella fortuna, a diventare una squadra, un gruppo vero. Ma non bisogna dimenticare che giù in Argentina hanno una organizzazione ben fatta, e te lo dimostra il fatto che, una volta che molti componenti della Generacion Dorada hanno smesso c’è stato un ricambio generazionale con l’arrivo di tanti giocatori nuovi, ma l’essenza, l’idea di squadra, la forza del gruppo, la consapevolezza di quello che vuole essere la nazionale di basket argentina, dentro il campo e fuori, non sono cambiate. Tutto parte da questo senso di orgoglio e di responsabilità che i giocatori provano per la maglia dell’Argentina. L’esempio più chiaro è quello di Scola: lui vuole restare per mostrare la strada ai nuovi ragazzi. Ma non è da solo: non c’è stato nessuno dei giocatori che hanno vinto l’oro nel 2004 ad aver dichiarato “OK il mio tempo è finito, me ne vado e basta”. Tutti loro hanno dato il loro contributo per far sì che la generazione entrante capisse come le cose andavano fatte, come si lavora in un gruppo, come ci si comporta con addosso la maglia della nazionale argentina. La chiave è lì. La maglia trasmette un orgoglio e una responsabilità che non è normale da altre parti.
C’è sempre stato un legame speciale fra gli sportivi, i campioni argentini e l’Italia. Nel calcio ci ricordiamo di Sivori, Maradona che in Italia è ancora considerato un semidio, Zanetti capitano dell’Inter per 10 anni, lo stesso Higuain versione napoletana. Ma anche nel basket, da Montecchia a Sconocchini, da Ginobili a Nicola e Delfino, tu stesso sei uno dei giocatori più amati della storia della Pallacanestro Trieste. Come ti spieghi questa relazione speciale fra argentini ed italiani?
La chiave sta nel fatto che culturalmente siamo molto simili. Io lo dico sempre anche a mia moglie, è da nove anni che siamo qui in Italia, mi è capitato di andar via per una stagione e dopo solo pochi mesi sentivo che non vedevo l’ora di tornare a giocare qui in questo Paese. E’ perché lo sento come casa mia. E’ la stessa cosa che capita a tanti altri argentini che arrivano, si sentono a loro agio e poi non se ne vogliono più andare. E’ proprio un fatto culturale, l’argentino è molto simile all’italiano, non dimenticarti che tanti italiani sono arrivati in Argentina anni fa e hanno lasciato su di noi una grande eredità, un’impronta precisa, tanto che un argentino che arriva qui si sente come se fosse ancora in Argentina. Questo l’ho provato io in prima persona, poi ovviamente ogni città è diversa: a Trieste ho trovato un senso di gruppo, di comunità, di famiglia, di voler stare insieme con tutti anche fuori dal campo che mi ricorda molto il modo di vivere argentino. Mi fa sentire bene, pur essendo tanto lontano da casa, cosa che non è facile. Sono sicuro che la chiave sta lì, è la spiegazione del perché tanti argentini arrivano qua e si sentono come si sentono.
C’è una storia che narra di quando nel 2008 tu eri freshman all’Università di Temple in Pennsylvania e i San Antonio Spurs vennero a giocare a Philadelphia ricevesti una chiamata da Ginobili ed Oberto, compagni di squadra in NBA, che ti portarono fuori a cena. E’ vera o è solo leggenda?
E’ vera. E conferma quello che ti dicevo prima: il tipo di giocatori che sono stati, e qualcuno ancora è. Nella personalità, nel modo di comportarsi. Poi figurati quello che può aver significato per me, che ero un ragazzino arrivato a Philadelphia da appena un mese e guardavo a loro come se fossero Michael Jordan e LeBron James. E invece sono stati loro a mettersi in contatto con l’Università. Greg Popovic ha chiamato il mio coach, che mi ha convocato nel suo ufficio informandomi che Ginobili ed Oberto volevano portarmi fuori a cena, ed io ovviamente non ci volevo credere, ho pensato subito a uno scherzo. Io non li avevo mai conosciuti di persona, anche se Oberto a 17 anni aveva giocato con mio padre nel ’96, ma io avevo 6 anni e da allora non l’avevo mai più visto. Questo è solo uno dei tanti gesti incredibili di questi giocatori. Recentemente ho avuto l’opportunità di parlare con Oberto, e gli ho chiesto il perché di questo modo di agire, siamo tornati sul quell’episodio e ho voluto sapere la ragione per la quale mi hanno chiamato, non ne avevano certamente bisogno in quel momento. Mi ha risposto che loro avevano già vissuto la situazione che stavo vivendo io allora, e sapevano quanto difficile può essere vivere tanto lontano da casa e quanto è importante avere un contatto con un connazionale, o anche solo fare quattro chiacchiere con qualcuno che aveva già provato le stesse sensazioni, e hanno voluto mettere la loro esperienza a disposizione ed in aiuto ad un ragazzino che stava appena iniziando. E’ roba da fuoriserie, sono cose che ai nostri occhi li fa diventare i grandi campioni che sono.
Anche se hai detto che qui a Trieste ti senti a casa, e tu e tua moglie ormai siete cittadini del mondo, la pandemia ti ha impedito di tornare in Argentina per molto tempo, per cui sicuramente un po’ di nostalgia per la tua terra la proverai. Quanto importante è per te avere finalmente un tuo connazionale in squadra? L’arrivo di Carlos Delia si tradurrà in serate a base di empanadas, mousse de leche, bevendo mate davanti alla TV guardando il derby di Buenos Aires?
Ma no guarda, ormai sono abituato. Non mi era mai capitato di passare tanto tempo lontano da casa, cerco di tornare ogni anno, massimo ogni due. Adesso, se tutto andrà bene, passeranno tre anni prima che io possa andare in Argentina, dovrei andarci nel giugno 2021. Però il fatto di stare così bene a Trieste fa in modo che questo lungo periodo lontano da casa non sia poi così duro. Qui stiamo veramente bene, abbiamo tanti amici e quello sicuramente ci aiuta. Quando ho saputo dell’arrivo di Marcos, però, sono stato molto contento. Pensa che è la prima volta in carriera che mi capita di avere un connazionale in squadra, e sono molto felice, anche perché so che ci potrà dare una grande mano. Ma è tutto lì, questo è il mio lavoro, ho fatto questa scelta di vita e sono abituato a queste situazioni, anche se non sono affatto facili. Ma le gestiamo.
A trent’anni stai giocando probabilmente la tua miglior stagione. Hai ancora la speranza di tornare in Nazionale, dopo la trentina di presenze che già puoi vantare? Magari nell’avvicinamento alle Olimpiadi?
Si sicuramente, l’ho sempre detto nelle interviste che mi fanno dall’Argentina, queste finestre FIBA danno l’opportunità anche a noi giocatori che non giochiamo in NBA o in Eurolega di metterci in mostra e di avere un’opportunità, e nel mio caso di tornare a vestire la maglia della nazionale dopo un po’ di anni. Io la maglia della nazionale la sento come l’ho sempre sentita dal primo giorno, è un motivo di orgoglio e io vorrò sempre tornare. Il lavoro che faccio qui a Trieste, per giocare bene e per aiutare la squadra a vincere, lo faccio sempre con un pensiero nella mia testa, quello di tornare a giocare con l’Argentina.