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La fenice biancorossa alla riconquista di Trieste

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Alla fine, bisogna ammetterlo, per tornare ad intravvedere le stelle è stata necessaria, se non indispensabile, la rovinosa caduta di popolarità della Pallacanestro Trieste nell’ultima travagliata stagione. Una caduta che non è solo diretta responsabilità, è bene precisarlo, di una proprietà, una dirigenza ed una conduzione tecnica arrivate con le migliori intenzioni in città, ma sfortunatissime nel presentarsi nel momento peggiore della storia del basket cittadino almeno a partire dalla rinascita del 2012. Un precipizio di cui la retrocessione del 2023 è stata solo la tappa più dolorosa, giunta dopo anni di mediocrità, di sguardi verso il basso anziché verso obiettivi ambiziosi, di fughe e fallimenti, di budget risicati ed incertezze, di giocatori improbabili e risultati alterni ma mai eccellenti.

Le sconfitte a Latina e contro gli universitari capitolini in cui la squadra è indecorosamente incappata ad inizio 2024 hanno solo contribuito a frammentare e disperdere le ceneri di vestigia gloriose, di ricordi emozionanti, dell’eco di vittorie, promozioni, trionfi e rinascite contro tutto e tutti che attraversano 40 anni di storia della città. Una comunicazione in stile bulgaro-anni 70 gestita in modo geloso, chiuso ed inutilmente reticente dopo i fasti di immagine dell’era Alma hanno poi posto una pietra tombale sulla popolarità del basket a Trieste, contribuendo in modo decisivo ad allontanare non solo i tifosi occasionali, quelli ciclicamente attratti solo dalle partite di cartello, dai risultati o dal semplice fatto di partecipare ad un evento “di moda” come ai tempi di Hurlingham o Stefanel, ma anche e soprattutto gran parte dello zoccolo duro, quello costituito da tifosi che negli anni non avevano mai abbandonato squadra e società seguendola e sostenendola anche nelle improbabili palestrine di Corno di Rosazzo e San Donà di Piave.

Sbarcare a Trieste in un momento del genere, dopo aver “comprato” l’idea di una piazza competente ed appassionata, un’arena popolata e supportiva, una squadra amata e seguita, oltre a costituire un vero e proprio capolavoro di marketing latin-style da parte della proprietà uscente, non può che aver abbagliato non solo CSG, ma anche i nuovi gestori del club sia dal punto di vista manageriale che da quello sportivo. La piazza, in verità, al loro arrivo era già arrabbiata e delusa, poco propensa al perdono, e soprattutto molto, molto sospettosa, in taluni casi addirittura prevenuta. In una situazione del genere, accentuata dalle ovvie difficoltà di comunicazione verbale da parte dei vertici aziendali e del coach americano (che a dire la verità dopo qualche mese potrebbe iniziare ad azzardare qualche parola nella nostra lingua) e di una impostazione dell’evento sportivo di stampo troppo anglosassone per essere immediatamente metabolizzata da tifosi ridottisi nel tempo a badare essenzialmente al sodo, la rottura fra club e tifosi non poteva che esplodere in modo veemente ed esplicito fin dal momento del lancio di una campagna abbonamenti ambiziosa ma totalmente sbagliata, sproporzionata rispetto a ciò che si sarebbe andati a proporre. Certamente durante la stagione, complice la facilità con la quale chiunque ormai si sente libero (anche se libero non è) di riversare frustrazioni e bassi istinti sui tasti ben mimetizzati di un computer o di uno smartphone, la frattura si è tradotta in episodi inconcepibili, spesso inaccettabili, inediti a queste latitudini. Comportamenti isolati e censurabili, che però hanno scavato un canyon tra i giocatori ed il pubblico ed hanno anche avuto l’ulteriore e sgraditissimo effetto collaterale di fratturare la tifoseria “superstite” in più fazioni rivali ed ipercritiche le une con le altre, che alla fine hanno portato al reale svuotamento del Palatrieste.

Eppure. Eppure il GM ed il suo staff hanno progressivamente preso le misure a ciò che stava accadendo. Si sono lentamente ripresi dallo shock iniziale come pugili alle corde dopo un potente jab sotto il mento. Hanno compreso che basket city probabilmente sta da un’altra parte, ma che Trieste avrebbe avuto tutte le potenzialità per provare a diventarlo veramente: non un retaggio ereditato, ma una opportunità da costruire per il futuro. Hanno ascoltato la pancia del malcontento con dignità senza mai trascendere in reazioni scomposte, ignorando pubblicamente attacchi e contestazioni (anche inverecondi e personali) ma facendone in realtà tesoro. Hanno creato un team con la precisa missione di riavvicinare il club alla città, varando iniziative collaterali, talvolta procedendo per approssimazioni successive, ma limando ogni volta spigoli ed incomprensioni. Hanno riportato la squadra, intesa come giocatori, in mezzo alla gente, perchè la torre d’avorio nella quale erano stati forzatamente rinchiusi per anni non poteva che rendere la Pallacanestro Trieste sempre più invisibile ed ignorata. Hanno partecipato, da protagonisti, alla ristrutturazione di impianti sportivi in periferie disagiate. Hanno cercato, alla fine riuscendoci, di riavvicinare i più giovani, i tifosi di domani, i bambini delle scuole e delle società sportive dilettantistiche riportandoli sugli spalti, per non parlare del travolgente successo della vendita dei biglietti all’Università (idea ammirata ed invidiata in mezza Italia). Hanno infine cercato con caparbietà e coerenza di far apparire colui che con il tempo è divenuto il maggiore capro espiatorio della situazione, il coach americano, per quello che in realtà è, un comunicatore con le idee chiare e metodi innovativi, alieni ai più, ma di certo non uno sprovveduto come qualcuno aveva iniziato ad insinuare: in verità Jamion Christian è sempre stato quello che in questi giorni sembra improvvisamente sbocciato generando il mea culpa generale degli addetti ai lavori che lo avevano spietatamente stroncato durante la stagione il più delle volte come conseguenza di incompatibilità fra due mondi privi di contatti e di comunicazione. Un lungo periodo di adattamento e comprensione del mondo alieno ed ostile nel quale era stato catapultato è stato indubbiamente necessario e si è probabilmente tradotto in sconquassi in campo ed in classifica, ma gli va riconosciuto che la barra è sempre rimasta a dritta anche nei periodi emotivamente più impegnativi.

GM e giocatori, anche mei momenti più difficili, non si sono mai negati ad interviste, apparizioni televisive o radiofoniche, proponendosi sempre in modo positivo ai limiti del naif. Il club ha compreso gli errori iniziali, varando una serie di agevolazioni per la parte finale della stagione e per i playoff adatte a tutte le tasche. E’ infine riuscito pure nell’impossibile, nel ricucire i rapporti con la frangia più accesa dei tifosi dopo appena un paio di mesi dal ground zero del basket cittadino, ottenendo anzi in cambio un rapporto di collaborazione reciproca. Ultimo particolare, ma non certo per importanza, è la qualità dei contenuti mediatici proposti dai profili social del club, che esibiscono oggi una qualità ed un confezionamento ammiccante molto allineato ai tempi, di gran lunga più aggiornato ed adatto ad un pubblico giovane rispetto a quello compassato ed anonimo di qualche mese addietro.

Ora, che i risultati abbiano da sempre un effetto taumaturgico su ogni crisi indipendentemente da tutto il resto e riavvicinino il pubblico riattizzando l’entusiasmo e la partecipazione è cosa nota e palese, e dunque è onestamente inutile illudersi che con un cammino perdente ai playoff la rinascita biancorossa avrebbe avuto lo stesso risalto. E l’ultimo mese biancorosso non fa eccezione: il perentorio 6-0 nei playoff e la possibilità ancora aperta di perseguire l’obiettivo iniziale della stagione, origine principale di ogni genere di discussione, ironia e scacco morale, ha compiuto il miracolo di ripopolare il Palatrieste tanto quanto i tempi del Red Wall, riaccendendo attenzione mediatica e riportando il basket ai vertici degli interessi sportivi dei triestini, complice anche l’anonimo finale di stagione dell’Unione. Il 6-0, però, non è certo regalato, è piuttosto figlio di una sorta di “rinascimento” sportivo apparentemente inspiegabile, in verità ricostruibile analizzando nei minimi particolari i due mesi e mezzo di rovinosi rovesci sui campi di mezza Italia. Ma tutto sommato non è importante come la squadra si arrivata a meritarsi la finale promozione, tanto è evidente il pieno merito e la superiorità tecnica ed agonistica grazie alla quale i biancorossi siano riusciti ad avere la meglio su formazioni fino ad inizio maggio dai più considerate inavvicinabili. E’ palese che l’esito finale positivo della stagione sarebbe fondamentale per consolidare questa sorta di nuova luna di miele con la città, anche se la finale raggiunta in modo così convincente costituisce di per sé stesso un discreto punto di partenza da non disperdere.

Che vi sia una maggiore capacità di comprensione da parte del club della mentalità tipica di questa città brontolona e mai contenta, che si stia compiendo una esaltante striscia vincente sul campo, oppure, più probabilmente, che si stia materializzando un mix con effetto defibrillante fra le due motivazioni, tutto sommato non è importante. Dalle ceneri fumanti di un basket di vertice cittadino apparentemente condannato alla decadenza ed all’oblio, quando non all’aperta ostilità, si è passati nel breve volgere di qualche settimana al risollevarsi di una Fenice fatta di speranza, sogni ed entusiasmo, primo, inaspettato, insperato e maggiore risultato raggiunto dalla Pallacanestro Trieste in questa sghemba, stranissima, ondivaga stagione. Risultato conquistato con le unghie, la pazienza ed i denti, su cui, indipendentemente dalla categoria alla quale il club si iscriverà la prossima stagione, dovrà essere in ogni caso costruito il futuro.