Alla fine è andata come era ovvio e giusto che andasse. Una stella americana, nata e cresciuta a Seattle, formatasi nella sua città alla O’Dea High School (dove gioca anche un po’ a football e vince qualche gara di atletica leggera), esploso a Duke University in North Carolina, scelto come numero 1 ai draft NBA dagli Orlando Magic e che probabilmente ancora si chiede, pensando rigorosamente in inglese, come mai i suoi genitori -un italo americano ed una afro americana ex stella della WNBA – gli abbiano affibbiato un nome che suona vagamente italiano, sceglie legittimamente di difendere i colori di Team USA ai Mondiali di settembre. I colori dell’unico Paese che sente come suo per lingua, cultura e formazione. Finalmente si mette la parola fine ad una vicenda che non avrebbe nemmeno dovuto iniziare, non fosse per il serrato, utopistico quanto patetico corteggiamento del gotha del basket azzurro prostratosi al gran completo ai piedi di un ragazzone che fin dall’inizio aveva le stelle bianche e le strisce rosse tatuate nel cuore.
Come il cuculo che si impadronisce del nido degli altri uccelli deponendone le uova ed allevando i propri pulcini senza fare lo sforzo di costruirselo, alcuni italiani cercano di arrivare all’obiettivo nel modo più economico e facile possibile, senza investire, senza programmare, appropriandosi senza merito del lavoro altrui, e questa vicenda non fa nulla per smentire tale cliché. Il movimento del basket nostrano è oggi dilaniato da decisioni, cultura, investimenti e programmazione autolesionisti. L’impiantistica, specie quella indoor, è spesso fatiscente ed ignorata da una classe politica calciocentrica ed autoreferenziale. Le palestre scolastiche vengono lasciate marcire almeno finché non rischiano di cascare letteralmente sulle teste dei malcapitati utenti, ed allora vengono transennate, sbarrate, chiuse, e poi (forse e rigorosamente in odore di elezioni) ristrutturate con tempi e modalità che le tolgono a tempo indeterminato dalla disponibilità delle squadre di pallacanestro e pallavolo che altrimenti le affollerebbero con turni affannosi ed insostenibili. Nelle scuole l’educazione fisica è considerata, nel migliore dei casi, una perdita di tempo, una disciplina che non aggiunge nulla alla formazione culturale ed intellettuale di una generazione che, dal canto suo, spesso considera culturale ed intellettuale passare mezze giornate ad annullarsi davanti allo schermo di uno smartphone. Nelle Università italiane, da sempre, il merito sportivo non esiste, così come non esistono impianti sportivi nei (rari) campus nel Belpaese.
Ma anche nel caso, sempre più raro ma non impossibile, nel quale un giocatore italiano riesca – con cocciutaggine, sacrifici e passione – a far sbocciare il proprio talento come un fiore nel deserto, per poter giocare ed affermarsi ad alti livelli deve scegliere di espatriare. Eh sì, perché qui da noi un regolamento tanto miope quanto soggiogato alle logiche economiche delle pochissime potenze partecipanti all’Eurolega impone di fatto a tutto il movimento l’utilizzo prioritario di stranieri spesso inadeguati, quasi sempre sopravvalutati, sempre di passaggio, mai in grado di far crescere tecnicamente gli italiani che hanno la ventura di potersi allenare con loro tutta la settimana. Così assistiamo all’ennesima finale scudetto nella quale i pochi italiani utilizzati, super veterani, hanno prima dovuto dimostrare di essere capaci di giocare a pallacanestro nei top team di mezza Europa ed anche nell’NBA, prima di avere il diritto di passare qualche minuto sul parquet di casa loro ed eventualmente vincere un titolo di MVP che odora tanto di compensazione. Alcuni loro compagni, che pur hanno vestito o vestono tuttora la canottiera azzurra della Nazionale, sono sistematicamente relegati a sventolare asciugamani ed esultare per le schiacciate dell’annoiato califfo di turno. Anche la serie inferiore, che avrebbe potuto trasformarsi in un incubatore, una sorta di nursery di giovani promesse e di tecnici italiani che senza troppe pressioni avrebbero potuto sviluppare e rafforzare capacità e possibilità, decide di rinunciare a questo compito: consente, infatti, l’ingaggio di coach stranieri senza togliere un visto da spendere ed abolisce il limite minimo di junior da portare a referto, inducendo così l’allestimento di squadre composte da esperti veterani superpagati guidate in panchina da mercenari che della crescita del movimento azzurro non fanno certo la loro missione di vita. Qualche italiano di belle speranze e discrete possibilità sceglie talvolta di passare quattro anni a formarsi nella NCAA metabolizzandone metodi di allenamento, cultura, disciplina sportiva ed approccio all’impegno agonistico: ma siamo sempre lì, anche se qualcuno di loro dovesse riuscire a ritagliarsi qualche minuto in squadre di fascia medio bassa in Serie A, il merito sarebbe più suo e di chi ne ha curato la crescita al di là dell’oceano, non certo di chi ne ha ignorato l’esistenza a casa sua.
In uno scenario devastato e deprimente come questo, fa quasi tenerezza assistere allo spettacolo di charter e voli privati che portano CT e funzionari di rango elevato della Federazione ad inseguire Paolo Banchero per mezza America, pendere dalle sue labbra, interpretarne a comando le mezze parole ignorando i mezzi segnali che fin da subito aveva lanciato, inascoltati, verso le avide orecchie di chi avrebbe voluto vincere senza passare dal via. Ma anche di chi ha ingenuamente creduto che il suo talento avrebbe potuto da solo risollevare la Nazionale Azzurra dalle macerie nelle quali langue da decenni (come se Jokic, Doncic o Antetocoumpo fossero da soli riusciti a portare in cima al mondo le loro rispettive Nazionali, pur popolate da altri splendidi talenti), illudendosi che appropriarsi delle giocate di un ventiduenne dell’Oregon li avrebbe sollevati per un po’ dall’onere di costruirgli attorno un movimento credibile, sostenibile e con un brillante futuro davanti. Ecco, se il denaro speso per quei viaggi fosse stato investito, invece, per realizzare il parquet nuovo della palestra di una scuola media di Molinella, o per impermeabilizzare il tetto dell’impianto del CUS Palermo, o ancora per realizzare la nuova palestra della Servolana a Trieste, un mattoncino per costruire la nuova casa del basket italiano si sarebbe posato. Altro che Banchero.