(Photo Credit: sito ufficiale Pallacanestro Trieste)
Così il momento è finalmente arrivato, dopo 511 giorni di tribolate vicende iniziate quel maledetto 7 maggio 2023 in cui letteralmente tutto cambiò nel giro di 40 minuti: futuro, certezze, speranze, ambizioni spazzate via dai 22 punti di scarto con i quali Brindisi mise a nudo con drammatica precisione ciò che la Pallacanestro Trieste era in quel momento. Immergersi nell’inferno multiforme della serie A2, ora possiamo dirlo, è stato però un passaggio indispensabile, una catarsi che ha permesso alla storia sportiva della pallacanestro giuliana di spogliarsi dei fardelli del passato, troppo spesso costituiti da mediocrità e carenza di ambizione (certo dettate da risorse finanziarie non particolarmente munifiche, ma anche, è inutile negarlo, da una mentalità consolidata negli anni), per poter ripartire purificata e rinnovata, motivata ed ottimista verso gli obiettivi che club e città sentono di meritarsi dopo cinquant’anni passati sempre a rincorrerli affannosamente senza mai raggiungerli, talvolta sfiorandoli -con Stefanel e Alma- ma pagando puntualmente con rovinose e dolorosissime cadute ogni tentativo di scrollarsi di dosso la scimmia da eterna provinciale incompiuta.
Il rinnovato parquet del PalaTrieste, che ora presenta una livrea moderna e sfacciata come un albergo di Las Vegas, è la metafora di questo cambio di pelle, di un modo di interpretare un club sportivo spingendolo ben oltre il risultato della singola partita, di renderlo fruibile (e godibile) in tutti i suoi espetti in modo radicato sul territorio, “community” come il club ora adora definirlo, con una identificazione reciproca e viscerale fra la città e la sua squadra. E’ un cambio di passo evidentemente specchio di una mentalità tipicamente americana dell’evento sportivo inteso anche come spettacolo, un cambio che era ancora acerbo ed embrionale nel momento in cui CSG divenne in corsa proprietaria della Società nel momento sportivamente peggiore degli ultimi dieci anni. Un cambio maturato tramite approssimazioni successive, con tentativi qualche volta naif, altre volte sorprendenti, ma perseguito con coerenza, granitica fermezza ed una visione talmente chiara che non ha precedenti nella storia sportiva triestina. E’ una evoluzione, ovviamente, pensata a sua immagine e somiglianza da Michael Arcieri, esiliato non senza polemiche dal Regno di Argentina-sezione Varese, ed approdato ad una realtà che forse, nella primavera del 2023, considerava una tranquilla isola felice, una “basket city” che segue la sua squadra nel bene e nel male in un palazzetto che si autodefinisce red wall. Sedendosi, invece, su una faglia talmente carica di energia da essere in procinto di scatenare il terremoto più violento della sua storia, disinnescato in extremis da un sorprendente, inaspettato, agognato e certamente non casuale finale di stagione.
La caduta necessaria con migliaia di cuori biancorossi spezzati, il peso della colpa espiato in una stagione trascorsa sull’ottovolante emotivo in palazzetti difficili da trovare sulle carte geografiche. Ora è tempo di riscuotere il prezzo della sofferenza e di tornare, con il vestito della festa, a riveder le stelle. Il destino non poteva apparecchiare meglio l’uscita dall’inferno per Trieste: quelle che bagnano l’ennesima rinascita della pallacanestro sotto San Giusto sono, in effetti, stelle vere, campioni di livello mondiale, detentori degli ultimi tre titoli nazionali. Un destino che lega a doppio filo l’Olimpia alla città giuliana, e ne costituisce una fetta importante di storia: il club lombardo nacque nel 1945 con il nome di “Triestina Milano” e colui che ancora oggi dà il nome all’impianto di via Flavia vinse sette scudetti da allenatore sulla panchina meneghina negli anni ’60. Le mitologiche scarpette rosse parlarono “patoco”, e sul venticinquesimo scudetto festeggiato al Forum di Assago nel giugno del 1996 da Tanjevic e Bodiroga, De Pol e Fucka, dovrebbe essere ricamata una piccola alabarda rossa. L’ultimo figlio di Trieste a vestire la casacca lombarda, il figlio anche di Alberto (che di Milano fu acerrimo nemico nei derby con Cantù), sarà probabilmente la stella più applaudita fra quelle che torneranno a splendere sotto le volte lignee del Pala Rubini.
Tornare a flirtare con la massima serie è, per gli appassionati triestini, quello che per i fan di Bruce Springsteen è tornare a vederlo in concerto per la trentesima volta, per gli appassionati di Stephen King leggerne avidamente l’ennesimo romanzo, per i fan di Friends riguardare, ridendo come se la vedessero per la prima volta, la centesima replica di episodi che ormai conoscono a memoria: è la piacevole sensazione di tornare a casa, di sentirsi al sicuro, di parlare con amici rilassandosi al rassicurante suono delle loro voce, che sa di calore, di consuetudine, di famiglia, di amore. Senza timore di essere poco umili, è, per tutti noi, l’habitat sportivo più naturale. Solo che, da oggi, ad essere protagonisti non saranno solo i campioni venuti da fuori da ammirare con congenito timore reverenziale, ed ogni inaspettata vittoria triestina da accogliere come una conquista, una sorpresa, un ribaltamento dei pronostici. Michael Arcieri, in una intervista di qualche settimana fa, affermava “….vedete, se io andassi da Colbey Ross o Markel Brown e dicessi loro che stiamo costruendo una squadra che ha l’obiettivo di salvarsi comodamente, non avrei nessuna speranza che loro accettino di venire a Trieste. Da me non sentirete mai dire una cosa del genere. I migliori giocatori vogliono solo vincere, e noi vogliamo vincere tutte le partite. Our limit is the sky“. Anche constatare quanto le parole del GM biancorosso, pure quando risultano provocatorie o spiazzanti, tendano a verificarsi nel mondo reale con inquietante continuità, è divenuta per i triestini una consuetudine piacevolmente consolidata. E così, quella che ne uscita è una squadra che, sulla carta, potrebbe essere in grado di competere ai più alti livelli con qualunque avversaria, probabilmente la più forte e la più completa fra quelle allestite dal 1994, anno dell’esodo collettivo verso la Lombardia. Ross e Brown sono arrivati davvero, così come Brooks e Valentine (entrambi con trascorsi milanesi). Un caso? Solo l’effetto diretto delle disponibilità finanziarie del nuovo presidente istro-californiano? Non ne siamo affatto sicuri, anzi siamo certi del fatto che quella di quest’anno possa essere solo la prima tappa, ben pensata e chiaramente progettata, di una metamorfosi sostenibile del club che potrà portare finalmente quei risultati sul campo mai arrivati finora, a patto però che la città abbia la pazienza e la coerenza di attenderli. Certo, in una città che anche dopo centosei anni dalla fine della Prima Guerra Mondiale si sente ancora asburgica e guarda con diffidenza (quando non con aperto astio) ad ogni cambiamento dello status quo, pensare di far metabolizzare facilmente una metamorfosi così profonda, un cambio di mentalità così dirompente senza effetti collaterali può diventare un’impresa più ardua che vincere uno scudetto. Ma la città deve anche comprendere che questa è l’unica via, e potrebbe essere una delle ultime occasioni concesse dal destino per rinascere a nuova vita. Aprire la mente al futuro, concedergli una chance, perchè il futuro sta bussando alla nostra porta.
Buona Serie A, Trieste.