(Foto Credit: Sito ufficiale Pallacanestro Trieste)
Giorni di festa, giorni di marce indietro, giorni di “ci eravamo sbagliati”. Giorni nei quali i due che fino ad un mese fa venivano additati come principali colpevoli di una stagione fallimentare divengono improvvisamente oggetto del pellegrinaggio devoto di giornalisti e tifosi pentiti che si genuflettono davanti ai Nostri Signori delle Scuse. Certo, il risultato finale è oggettivo e sta lì a decretare la sconfitta, oltre che di Torino, Forlì e Cantù, anche degli eccessi, talvolta violenti -in senso letterale e non- che avevano quasi provocato il definitivo deragliamento della stagione e, con essa, del futuro stesso della Pallacanestro Trieste.
Ma la realtà è ben più complessa di così e, ammesso che ne valga veramente la pena, alla luce dell’evitabile strascico polemico che appanna un po’ la gioia per essersi tolti velocemente dal pantano della A2, forse guardare le cose da una prospettiva diversa potrebbe portare infine a comprendere e fare finalmente la pace con l’inaspettato, (s)travolgente e spiazzante mese e mezzo di basket che abbiamo appena vissuto, e dunque vogliamo provarci.
Inannzitutto, le scuse non sono necessarie. Primo, perchè non richieste da due gentlemen che dopo aver ignorato gli insulti a testa alta e con il sorriso, non stanno ora certo qui a gongolare porgendo l’anello per il baciamano guardando la piazza dall’alto in basso: semplicemente, non è il loro stile. Secondo, perchè tutto sommato nessuno di noi si era sbagliato. Siamo andati a rileggerci le cronache e le analisi dell’intera stagione. Lo spettacolo al quale stavamo assistendo settimana dopo settimana da inizio gennaio a fine aprile -al netto delle ragioni esogene (infortuni ed acciacchi vari) che ne amplificavano ulteriormente gli aspetti nefasti- era oggettivamente inguardabile. Descrivendo semplicemente ciò che vedevamo, non si poteva che precipitare nel pessimismo più profondo, anche se andava in direzione diametralmente opposta all’incrollabile fiducia ostentata da Arcieri & Christian, che ad un certo punto molto probabilmente continuavano con cocciuta coerenza ad andare controcorrente con affermazioni apparentemente fuori da ogni logica più per proteggere ed isolare la squadra che per reale e profonda convinzione personale (la loro fiducia, in quei momenti, non può non aver almeno vacillato, sebbene il credo cestistico ed il programma che li accomunava siano rimasti sempre chiari e saldi nelle loro menti). E non era semplicemente l’assenza apparente di un progresso tecnico o la sequenza di risultati negativi a preoccupare, bensì il linguaggio del corpo degli attori principali, i loro sguardi attoniti, i loro sfoghi nervosi in campo, l’evidente scoramento che apparentemente li portava a desiderare la doccia quindici minuti prima della fine delle partite. A generare taluni giudizi era anche la chiara incomprensione nella comunicazione fra panchina e campo e viceversa: si era probabilmente ad uno stadio troppo precoce di un processo di apprendimento in evoluzione, forse allora dall’esterno era impossibile rendersene conto o forse il senso di urgenza nel raggiungere subito determinati risultati implicava necessariamente il rifiuto ad accettare la lentezza di tale evoluzione. Nessuno, però, ha la necessità o tantomeno l’obbligo di ritrattare osservazioni oggettive, nessuno si deve vergognare di avere avuto dei legittimi dubbi cospargendosi, oggi, il capo di cenere per non aver già allora visto la luce, perché allora la luce si faceva davvero fatica a vederla, a patto di non voler a tutti i costi mantenere il punto e non volersi accorgere di ciò che è successo nel frattempo. Così come anche i giocatori non devono negare, rinnegare o rimuovere quei momenti, perché sono stati anch’essi evidentemente necessari per provocare una reazione uguale e contraria, una ribellione morale e sportiva che li ha portati a fumare il sigaro dei vincitori sotto una pioggia di spumante.
Ma, a questo punto del racconto, non bisogna cadere nel tranello di pensare che siano state le contestazioni, gli insulti, gli sberleffi, gli striscioni, le offese personali, i cori di dileggio, la polverizzazione della tifoseria in fazioni rivali che neanche l’Italia medioevale ne ospitava tante, a cementare lo spirito di gruppo, a provocare una reazione, a creare quel senso di minaccia incombente tale da generare il cambio di rotta. Semmai, il punto più basso toccato dalla tifoseria giuliana negli ultimi quarant’anni ha partorito il topolino di un post maldestro ed ingenuo, ma profondamente sincero e per questo accettabile, di un capitano finalmente libero di respirare fuori dalla melma. Al contrario, la reazione, la voglia di rivalsa, l’acquisizione di un amor proprio e della consapevolezza nei propri mezzi nasce piuttosto dal cuore stesso della squadra. Nasce dalla ribellione (alla situazione, non al coach…) dei suoi uomini più esperti, che tutto sommato sono stati scelti nell’estate del 2023 proprio per affrontare di petto tempeste come questa e soprattutto per insegnare ai compagni come fare altrettanto. E’ tangibile il cambio di marcia morale prima che agonistica di uomini come Ariel Filloy e Giancarlo Ferrero, capaci di trascinare i compagni ben oltre l’effetto delle loro triple, riportandoli di conseguenza ai livelli di convinzione nel momento in cui più contava. Vildera ha finito la stagione da killer con un cappello da cow boy in testa dopo che a metà stagione si era addirittura vociferato di un suo accantonamento e di una sua possibile partenza, voci non reali nate esclusivamente dalla sua frustrazione. Francesco Candussi ha acquisito mentalità e riacquisito la concentrazione smarrita, tornando ad essere quell’animale vincente da playoff che era già stato in passato. Michele Ruzzier, anche per motivazioni personali, si è rivelato un uomo in missione. Attenzione, però. Abbandoniamo cortesemente teorie complottistiche fantasiose sulla presa di potere da parte della squadra, scempiaggine che non merita nemmeno di essere commentata. Proviamo a questo punto, invece, ad invertire i termini della questione tanto dibattuta sulla capacità di ascolto da parte del coach, perché tale suo pregio, tanto decantato da ogni giocatore con cui ne abbiamo parlato, viene ormai scambiato con la sua malleabilità nel cambiare rotta su suggerimento dei giocatori. Semmai, ciò che è successo è esattamente il contrario: Jamion Christian è chiaramente un uomo con il quale si può parlare, ci si può confrontare, si possono esprimere liberamente dubbi e debolezze, raccontare difficoltà e chiedere aiuto. Ma, essenzialmente, il coach è un grande comunicatore anche -anzi soprattutto- nel senso contrario: sa farsi ascoltare, ha capacità motivazionali e sa come trasmettere conoscenza. Evidentemente tale processo di trasferimento ha avuto necessità di un tempo mediamente lungo per essere prima accettato, poi capito, infine metabolizzato dalla squadra. Ma quando con il rientro di Reyes la squadra al completo si è trovata davanti all’ultimo sforzo, i tasselli del puzzle sono andati tutti al loro posto. Fortuna che tutto ciò sia avvenuto a fine aprile? Forse. Del resto, nello sport come nella vita, la componente C è indispensabile, per cui è anche inutile star lì a dire “sì, però…”. In effetti, pochissimo è cambiato nel gioco proposto dall’inizio della stagione a Gara 4 di finale: il bilanciamento fra tiro da tre e quello da due punti è più o meno sempre lo stesso, il gioco veloce basato su un flow organizzato su una base comune di pochissimi schemi è quello di ottobre, così come la scelta di andare alla conclusione preferibilmente nei primi secondi di azione cambiando fronte e muovendo la palla il più velocemente possibile. Qualche aggiustamento, come è ovvio che sia, è stato aggiunto in corso d’opera, qualche cambiamento strutturale è stato necessario (Ruzzier è un play, non una guardia….), qualche giocatore ha cambiato ruolo (Candussi da 4 e Reyes da 3 sono probabilmente la mossa più vincente dei playoff), ma sostanzialmente non è cambiato nulla di fondamentale. Ciò che è cambiato, una volta che la squadra si è convinta di poter raggiungere l’obiettivo, è l’esecuzione, e con essa le percentuali, l’efficacia difensiva, le poche palle parse, il predominio a rimbalzo, ed in ultima analisi i risultati, che quando arrivano generano un circolo virtuoso che aggiunge vittorie alle vittorie, morale al morale, autostima all’autostima. In altre parole, la crisalide è diventata farfalla, esattamente come avviene davvero, con un processo naturale di evoluzione indipendente da fattori esterni: lo ha fatto perchè è stata la sua natura, perchè le componenti esperienza e comunicazione interna hanno permesso alle multicolori ali di dispiegarsi e spiccare il volo verso la categoria di competenza finendo per assomigliare da vicino alla filosofia cestistica immaginata dal coach per questa squadra.
Le scuse, invece, sono necessarie ed anzi indispensabili da parte di chi, non certo solo fra i tifosi più accesi, è trasceso in comportamenti (reali e virtuali) umanamente inaccettabili, e non perché essere scontenti ed anzi indignati per lo spettacolo -a pagamento- al quale si stava assistendo sia di per sé sbagliato (anzi, è sacrosanto diritto), bensì perché certe scomposte esternazioni pubbliche sono inconcepibili dal punto di vista del vivere civile. Solo dopo aver compreso questo, ed aver completato un bell’esame di coscienza, ci si può abbandonare a commentare un post su Instagram di un ragazzo di 23 anni sottoposto a due stagioni di elettroshock. L’invito conciliante della curva a partecipare tutti insieme alla festa promozione in piazza è un segnale che va decisamente in questa direzione, ed apre uno scenario costruttivo per il prossimo futuro.
E, dato che ormai il domani per la Pallacanestro Trieste è già iniziato da un paio di giorni, non vediamo l’ora di voltare pagina e parlare, magari, di mercato per la Serie A: come direbbe Forrest Gump, non ho altro da dire su questa faccenda.