di Francesco Freni
La scomparsa di coach Gianfranco Lombardi, avvenuta ieri a quasi ottant’anni, fa inevitabilmente riemergere in tutti noi, vecchi innamorati del basket triestino, immagini sfocate, quasi sempre in bianco e nero, che rievocano un’epoca di esaltazione quasi naif, un periodo felice della storia cittadina, ancora strabordante della ricchezza portata dalle invasioni di torpedoni jugoslavi, all’apice di un luccicante decennio tutto lustrini, disco music, pantaloni a zampa e borselli kitch. Una città come di consueto ai margini dei drammatici avvenimenti nazionali, di anni di piombo vissuti con la sonnacchiosa ed ironica indolenza che da sempre caratterizza il buon vivere in questo estremo lembo d’Italia.
Un’epoca in cui gli improbabili personaggi della pallacanestro triestina, ancora vestiti di verde, ci misero poco a divenire delle vere e proprie rockstar, ambite nei salotti bene dell’alta borghesia, corteggiate dai programmi televisivi nelle TV locali che allora stavano imponendosi come unica alternativa alla televisione di stato, idolatrati da schiere di ragazzini che per la prima volta potevano appiccicare con il vinavil nei loro diari scolastici i ritagli con le foto di giocatori della loro città: Rich Laurel su tutti, ma anche James Bradley, Carlos Mina, Larry Boston, il playmaker intellettuale Angelo Baiguera, l’American Gigolo Bill Paterno o il grande e maledetto Bad News Marvin Barnes. Una società ed una serie di squadre a fortissima connotazione triestina, certo soprattutto per motivi economici, ma che, proprio per questo, divennero il fiore all’occhiello, il simbolo dell’orgoglio cittadino, oggetto di isteria collettiva per i pochissimi fortunati che, dopo interminabili file notturne in Galleria Protti, riuscivano ad accaparrarsi un tagliando utile per godere del discutibile ma ambitissimo privilegio di ammassarsi uno sull’altro nel microscopico e fumosissimo palazzetto di Chiarbola, allora ancora dotato di una parete di legno al posto della tribuna dietro alle panchine.
In un contesto di questo tipo, un personaggio come Dado Lombardi non avrebbe potuto evitare, nemmeno volendolo, di diventare il leader indiscusso del carrozzone mediatico e sportivo neroverde. I suoi atteggiamenti istrionici, il suo gesticolare continuo, le sue possenti urla da bordo campo, le proteste con gli arbitri, la sua scaramanzia portata all’estremo, il suo approccio rude, ma fortemente paterno, nella gestione dei giocatori più giovani. La sua tagliente ironia, il sorriso sostenuto dagli occhi di furbo livornese che non permettevano mai all’interlocutore di turno di capire fino in fondo se fosse sincero o (come spesso capitava) lo stesse prendendo in giro. Tutte caratteristiche di un uomo in cui Trieste, che tutto sommato è molto simile a lui, si identificò immediatamente e senza condizioni.
In un’era in cui i social media e, se è per quello, anche smartphone, computer ed Internet, non erano ancora stati immaginati nemmeno nei libri di fantascienza, le gelatinose immagini catturate dalle telecamere televisive costituivano l’unico mezzo per creare, far crescere, e plasmare un personaggio: Lombardi ne approfittò alla grande, grazie soprattutto alle sue comparsate in quello che a fine anni ’70 si impose come l’immancabile appuntamento serale del giovedì, di gran lunga più popolare in città dei quiz del Mike nazionale: alzi la mano chi, fra i più attempati seguaci del basket locale, quando sente ancora oggi Gloria Gaynor attaccare con “At first I was afraid, I was petrified” non associ immediatamente la melodia di I Will Survive a Pressing su Telequattro. Quella trasmissione divenne in breve il suo regno, il luogo in cui il Dado diede il meglio di sé con improbabili racconti di altrettanto inverosimili aneddoti della sua vita cestistica o riguardanti i califfi americani che di volta in volta incrociavano il suo cammino. Il pubblico in studio ed a casa ne rimaneva estasiato, la sua “spalla” televisiva, nonché padrone di casa a Telequattro, Giovanni Marzini – come da lui stesso raccontato nel suo libro “L’arancia nel cesto” – ne era sempre (consapevolmente) travolto senza mai comprendere fino in fondo se quanto era appena uscito dalla vulcanica bocca del coach fosse stato partorito di sana pianta dalla sua fantasia o fosse, nella migliore delle ipotesi, un abbellimento della verità.
Ma il personaggio Lombardi non deve distrarre dalle sue qualità di allenatore. Specialista in promozioni, a Trieste regalò due grandi gioie: la prima fu indimenticabile, con il leone dell’Hurlingham ancora cucito sul petto. Arrivò al termine di un campionato di A2 che annoverava, tra le altre, la Fortitudo, il Bancoroma, Treviso, Venezia, Caserta (tutte e cinque vincitrici di uno scudetto nei trent’anni successivi), e le tre “sorelle” regionali Gorizia, Udine e Pordenone: centrò inaspettatamente il salto che portava la Cenerentola giuliana per la prima volta nell’Olimpo cestistico nazionale in epoca moderna potendo contare su uno strepitoso Rich Laurel, un discreto James Bradley, un manipolo di volonterosi maniscalchi del parquet dotati di molto più cuore che talento, un tricotico playmaker innamorato della città e della sua chitarra più che della palla a spicchi e due giovani di belle speranze (da lui peraltro trattati a manate, cambi punitivi ed urla disumane: ma a giudicare da quello che divenne successivamente Alberto Tonut, evidentemente anche formative). Una cavalcata straordinaria, una favola che attrasse, per non lasciarlo mai più, l’amore incondizionato di una città verso la sua squadra di pallacanestro. L’impresa finì con l’immagine del Dado a braccia alzate, con l’indice sollevato ad indicare la A1 e le gigantesche lettere che stavano scendendo alle sue spalle: un’immagine-icona che rimarrà per sempre a simboleggiare la nascita del basket di alto livello a Trieste.
Dopo un difficilissimo impatto al piano di sopra, ed una stagione caratterizzata anche da brutte storie lontano dal parquet figlie degli eccessi a cui portò l’esagerata idolatrazione dei protagonisti, Lombardi condusse la sua squadra, non più targata dai profumieri della Atkinsons ma dai produttori di vernici dell’OECE, ad una ancora più incredibile promozione, arrivata il giorno di Pasqua del 1982 contro la Recoaro di Iavaroni potendo contare solo su due discreti americani ed un Alberto Tonut nel frattempo divenuto, non a caso, uno dei giovani più affermati dell’intero panorama cestistico nazionale. Di contorno, un gruppo di onesti lavoratori, ai quali il coach riuscì a trasmettere il coraggio e la consapevolezza indispensabili per raggiungere qualunque traguardo. Anche quel risultato fu, dunque, frutto del grande lavoro del coach, delle sue alchimie, della sua strabordante personalità. La sua sudatissima esultanza a centro campo nella ribollente palestra ponzianina costituisce, forse, la simbolica eredità lasciata al basket giuliano da uno dei suoi più amati pionieri.
Ci piace credere che se oggi siamo qui, dopo quarant’anni, a struggerci per una sconfitta o ad esaltarci per una vittoria, se gran parte dei triestini ha continuato a seguire la squadra anche dopo (e durante) i disastri che negli anni ne hanno squassato la storia, se il risultato della domenica riesce ancora ad incanalare il nostro umore per il resto della settimana, una buona parte del merito sia da attribuire anche a coach Gianfranco Lombardi.
(PHOTO CREDIT: pagina Facebook Basket-ieri e Pressing di Giovanni Marzini)