PALLACANESTRO TRIESTE – UNAHOTELS REGGIO EMILIA 75-80
Pallacanestro Trieste: Hudson 2, Bossi ne, Davis 23, Spencer 8, Deangeli 0, Ruzzier 4, Campogrande 2, Vildera 0, Bartley 27, Lever 8, Terry 1. Allenatore: Legovich. Assistenti: Maffezzoli, Vicenzutto.
Unahotels Reggio Emilia: Anim 12, Reuvers 3, Hopkins 10, Cipolla ne, Strautins 2, Vitali 0, Stefanini ne, Cinciarini 15, Lee 0, Senglin 16, Olisevicious 13, Diouf 9. Allenatore: Sakota. Assistenti: Fucà, Mangone.
Parziali: 16-24 / 22-11 / 19-26 / 18-19
Progressivi: 16-24 / 38-35 / 57-61
Arbitri: Paternicò, Paglialunga, Patti.
(Photo Credit: profilo Facebook ufficiale Pallacanestro Trieste)
Una partita da subito in salita, che vede Reggio Emilia approfittare di ogni singolo errore difensivo triestino punendolo con esiziale regolarità prendendosi per due volte durante il match vantaggi anche in doppia cifra, alla fine avrebbe potuto nonostante tutto essere immeritatamente portata a casa da una Trieste capace di recuperare punto su punto i gap passivi accumulati, aggrappandosi esclusivamente al talento ed alla imprevedibilità dei suoi due uomini migliori, Frank Bartley e Corey Davis. Ma, in una situazione in cui le alternative soprattutto offensive non esistono, gli avversari hanno gioco facile ad annullarne la pericolosità nei momenti decisivi giocati punto a punto, approfittando del loro comprensibile calo di lucidità, ed avendo d’altro lato l’enorme merito di trovare conclusioni difficili nell’ultimo minuto di gioco. L’unico, scarsamente appagante, risultato raggiunto da Trieste al termine di una bruttissima partita è perlomeno quello di aver infilato la bomba a fil di sirena che pareggia la differenza canestri nello scontro diretto.
Legovich viene tradito proprio da quello che aveva generato le migliori fortune -e gran parte dei risultati- in stagione: il gruppo. Contro Reggio Emilia la coralità è totalmente assente, viene esaltata invece l’individualità soprattutto di Frank Bartley (autore di 17 punti solo nel primo tempo) e quella, generata soprattutto dal carattere indomito, di Corey Davis. Fra i due si inserisce a sprazzi Skylar Spencer, in grado di trasformare in oro ogni pallone toccato soprattutto quando viene privato dall’ingombrante compagnia di Emanuel Terry, il cui ruolo al momento è ridotto a quello di togliere spazio ed iniziativa al compagno su entrambi i lati del campo (le due conclusioni da tre dall’angolo, con il treccioluto americano a fungere da terminale dello scarico del piccolo da centro area, sono sperabilmente episodi fortuiti, anche perché la probabilità che possa colpire con precisione dall’arco sono pari a quelle di un sei al Superenalotto). Ma il centro biancorosso viene cercato di rado, complice anche l’ottima difesa emiliana: non un gioco a due sul pick and roll, non un servizio in post basso spalle a canestro, solo giochi in isolamento o situazioni che nascono da rimbalzo. Addirittura, talvolta i due lunghi americani sembrano apparentemente ostacolarsi nel tagliafuori, favorendo le scorribande a rimbalzo offensivo di Hopkins, Diouf, Reuvers e Olisevicius. E “meno male” che Marcus Lee si infortuna dopo pochi minuti chiudendo da seduto la sua partita.
Per il resto, il coach ottiene pochissimo, talvolta nulla, dalla panchina. I neanche venti punti segnati in sette sono solo la punta dell’iceberg di una prestazione che nasce insufficiente soprattutto in difesa: Trieste viene battuta sistematicamente negli uno contro uno dai piccoli di coach Sakota, specie Anim e Senglin, capaci di saltare l’uomo con facilità disarmante penetrando nel cuore del pitturato e potendo poi scegliere fra mille alternative per la conclusione o lo scarico. Sul perimetro non va meglio: le semplici manovre attuate da Reggio Emilia per portare un blocco capace di generare un vantaggio di spazio e di tempo di esecuzione per i tiratori da tre non vengono lette con sufficiente tempismo dalla difesa triestina nemmeno quando diventano ripetitive fino al parossismo. E’ così che Cinciarini e Olisevicius nel primo tempo, Senglin nel concitato finale, si creano quel metro e mezzo di comfort zone per scagliare senza opposizione le loro conclusioni da lontano (poi, le conclusioni da lontano bisogna anche essere bravi a metterle, ed il 29,2% con cui si esibisce Trieste da oltre l’arco è eloquente in questo senso). Stavolta nemmeno “l’uomo in missione” Lodovico Deangeli riesce ad esprimersi a livelli perlomeno sufficienti almeno in difesa, dove appare spesso in totale confusione. Per non parlare di un Jalen Hudson che negli otto minuti passati sul parquet sembra -come prevedibile- un elemento totalmente alieno in attacco, letteralmente vagando senza meta in difesa favorendo il primo break avversario nel primo tempo: al nuovo arrivato servirà evidentemente ancora qualche giorno per integrarsi, ma il campionato non fa sconti e non aspetta nessuno. Le tappe del suo inserimento dovranno essere necessariamente forzate, altrimenti la sua si tramuterà in una operazione di mercato perlomeno inutile.
Il disperato tentativo di responsabilizzare Lever come alternativa credibile ai lunghi americani (in quanto capace di essere pericoloso sia da sotto che da fuori) porta risultati alterni e poco incisivi sull’inerzia della partita, sebbene il bolzanino si batta ed accantoni una volta per tutte la “timidezza” che per gran parte del campionato lo aveva portato a rinunciare perfino a guardare verso il canestro. Il suo ruolo è evidentemente cruciale e nelle ultime otto partite, con punti sempre più pesanti in palio, lo diventerà ogni minuto di più.
Altra fonte di preoccupazione è l’apparente momento di down fisico e tecnico vissuto da Michele Ruzzier, al quale evidentemente i coach avversari, dopo un anno e mezzo di “oblio” virtussino, hanno nuovamente preso le misure. Michele paga il gap fisico contro avversari mediamente più attrezzati, spesso americani, e la sua involuzione è dunque più che altro dovuta alle cure difensive particolari che gli vengono destinate. Di conseguenza, pur mantenendo la sua consolidata lucidità nella conduzione della squadra, torna a non considerare nemmeno di concludere a canestro, lasciando totalmente l’incombenza a Bartley e Davis. Ha personalità, esperienza, intelligenza e leadership sufficienti per uscirne.
Dagli altri, il vuoto, se si eccettuano sprazzi di discreta difesa da parte di Campogrande, che d’altro canto torna a scheggiare i ferri del canestro pur tirando libero e piedi a terra. Ma una squadra come Trieste non si può permettere di affidarsi esclusivamente alle scorribande di Bartley ed alle fiammate di Davis, è un arsenale troppo povero e troppo prevedibile per non essere neutralizzato da qualsiasi coach avversario. Ed anche perché contro le prossime avversarie da affrontare sul loro campo (Trento, Sassari e Brindisi) o all’Allianz Dome (Virtus e Varese) ci sarà il disperato bisogno del ritorno della coralità perduta.
Ora il percorso salvezza si complica maledettamente, oltretutto reso più incerto dal ritorno prepotente anche della squadra che appena due settimane fa pareva la candidata numero uno ad occupare uno dei due posti che portano in A2. Trieste ha ancora a disposizione due scontri diretti per riprendere in mano il suo destino, quello di sabato prossimo a Scafati (dove è d’obbligo perlomeno tentare di riprendersi quanto dilapidato contro Reggio Emilia) e quello alla penultima giornata contro Verona, che perlomeno si spera non debba diventare uno spareggio da dentro o fuori.
Ultima nota a margine, per nulla secondaria: poco più di 3000 spettatori per la partita più importante dell’anno, il sabato sera, non fanno onore all’amore della città per la sua squadra di basket, evidentemente tramutatosi in una chiamata “a comando”, atteggiamento da salotto elitario confacente a grandi piazze ma molto poco adatto ad una provinciale che lotta per la sua sopravvivenza sportiva. La conservazione della categoria e l’avvio del tanto auspicato progetto di crescita in salsa americana passa anche attraverso la trasformazione dell’Allianz Dome in un fortino inespugnabile, con un ambiente in grado di scendere in campo con i giocatori e cambiare inerzia e risultato delle partite. Rimanere a casa a riversare veleno sui social non giova a nessun aspetto alla causa alabardata.