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Bulli e lucertole

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Un umidiccio mercoledì sera qualsiasi di fine marzo, un campetto di calcio nella prima periferia udinese illuminato dagli incerti fari di ogni campetto di periferia. Si fronteggiano, nel recupero di campionato Under 17 (riservato, cioè, a ragazzi di sedici anni), una squadra triestina e quella locale, non facciamo nomi. Del resto, chiunque abbia la curiosità di saperli, questi nomi, è sufficiente che vada a vedersi il calendario, perchè è anche giusto consentire che gli eroi protagonisti di questa storia si riconoscano e possano raccontarlo ai propri figli. In palio, a parte i tre punti, c’è quello che un campionato Under 17 può mettere in palio: poco più della soddisfazione di aver battuto avversari con i quali c’è una certa rivalità, a dire il vero dettata più da quello che si sente raccontare dei vetusti campanilismi anni ’70 che da reale convinzione dei ragazzini in campo, fagocitati dalla globalizzazione social che del campanilismo è l’esatta antitesi. Ed in effetti, come previsto, la partita è bella accesa, i contrasti decisi, il risultato più volte in bilico e ribaltato. Naturalmente nessuno ci sta a perdere, ma a mano a mano che scorrono i minuti, a farsi strada fra i 22 protagonisti è più la fame da terzo tempo (in fin dei conti sono le otto e mezzo di sera e loro sono pur sempre adolescenti….) che quella da tre punti.

Una contesa così accesa, però, ha bisogno di un altro protagonista, il più importante per mantenere l’ordine fra i ragazzi e fra le panchine, quello vestito di giallo fluo con un fischietto in bocca. Si sa, la crisi di vocazione fra gli arbitri rende difficile reperirne a sufficienza, ma fortunatamente per la Federazione a farsi strada ultimamente è una nuova generazione di giovani e giovanissimi masochisti, non moltissimi a dire la verità, che muovono proprio in questi mesi i loro primi passi nell’ambiente marcio del pallone nostrano. Anziché lasciarlo a casa a preparare la verifica di matematica del giorno dopo, o al limite ad uscire un paio di orette con gli amici, la Federazione decide di inviare a dirimere le ataviche questioni fra Udine e Trieste un ragazzo che di anni ne avrà si e no tanti quanti quelli in campo, che magari avrà già incrociato in qualcuna delle sue (rare) esperienze precedenti, il quale arriva al campo, esattamente come gli altri protagonisti, scortato da mamma e papà.

Intanto, durante l’incerta contesa, qualcuno dei ragazzi sbaglia un passaggio, un altro mette il pallone nella propria rete. Un terzo commette un errore in difesa che costa il goal degli avversari. I mister dalle panchine si fanno prendere dalla concitazione, talvolta eccedono, di certo non contribuiscono a sedare gli animi in campo, forse sbagliano anche loro. Ma lui no. Lui, il ragazzino in maglietta giallo fluo che ha lasciato il libro di matematica aperto sulla scrivania a venti chilometri di distanza non può sbagliare come i suoi coetanei, anzi non deve. Forse prende una decisione affrettata, forse no, ma poi chi se ne importa. Dagli spalti piovono gli stanchi improperi e le aperte offese che infestano le tribune di ogni competizione giovanile in Italia, e fin qui non c’è nulla di nuovo o in grado di far sanguinare timpani ormai assuefatti al peggio. Ma al peggio, è noto, meglio non dare limiti: da un pacato signore, probabilmente il papà di uno dei sedicenni che sbagliano passaggi, arriva forte e chiaro un “ciccione di me..da” che definisce con la drammatica precisione di un quadro di Caravaggio il suo disagio personale, il livello del suo quoziente di intelligenza, quello della sua empatia e pure quella di altri due o tre genitori accorsi a dargli man forte rincarando pesantemente la dose con ulteriori sonori commenti che denigrano il supposto stato di forma del baby direttore di gara. E certo, perché il bullo, che fondamentalmente è un vigliacco, trova nell’anonimato del branco il suo habitat ideale. Un branco che pensa legittimamente che il body shaming vomitato in un banale mercoledì sera per umiliare un ragazzino accompagnato dai genitori, che potrebbe tranquillamente essere il compagno di banco dei suoi campioni, sia la giusta punizione per aver preso una decisione che forse impedirà loro di battere gli odiati triestini. E che è anche sicuro che l’esempio dato ai propri figli (“urla per ottenere”, “offendi per intimidire”, “umilia per elevarti”) possa farli crescere sani e forti, pronti per affrontare le sfide che la vita metterà loro di fronte.

Le lacrime che rigano il viso di un ragazzino umiliato ed impaurito che esce dallo spogliatoio a fine partita consolato dai dirigenti di una delle due squadre non le raccontiamo per suscitare pietà o compassione. E’ un’esperienza che probabilmente lo forgerà, gli farà crescere una corazza, lo farà anche elevare ad un livello talmente più alto rispetto ai cialtroni che l’hanno deriso da dargli la forza e la determinazione per continuare a far uscire da un fischietto la propria superiorità. Oppure, chissà, gli farà maturare la decisione di smettere, di tornare a piegarsi su quel benedetto libro di matematica lasciato aperto ed abbandonato sulla scrivania un mercoledì sera per diventare un astrofisico. Al contrario, Dio non voglia, potrebbe segnarne la vita come troppe volte accaduto in passato a ragazzini vessati dalla prepotenza del più forte. Non siamo sociologi, non sappiamo come andrà a finire, non abbiamo l’ambizione di salvare alcuno, né siamo in possesso dell’antidoto o della soluzione.

No, quelle lacrime sono le nostre lacrime, le lacrime di chi è consapevole che questa massa tumorale che fa del bullismo, della prevaricazione, dell’aggressività, del disprezzo per il prossimo, dell’ignoranza e dell’egoismo il suo ostentato modo di vivere è la precisa immagine di quell’ammasso maleodorante nel quale si è trasformato il mondo in cui per un po’ ci illudevamo di poter vivere sereni. Sono le lacrime, anche, di chi è ormai rassegnato al fatto che, quando nel 2032 l’asteroide YR4 impatterà la Terra mettendo pietosamente fine alla triste decadenza del genere umano, a sopravvivere saranno proprio loro, assieme ai virus, alle meduse ed alle lucertole.