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Wind of change

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Il nostro matrimonio è in crisi“. Più o meno è questa la frase che la città di Trieste sussurrò all’orecchio della sua squadra di basket al termine di una festosa domenica di sport, appena pochi secondi dopo che si era spenta l’eco delle 6500 ugole urlanti che accompagnarono il bolide vincente scagliato da un campione argentino in maglia biancorossa all’ultimo secondo nel canestro avversario. Era l’inizio di febbraio 2020, quando sembrava che la tragica morte di Kobe Bryant, avvenuta solo pochi giorni prima, sarebbe stato l’evento epocale dell’anno. Quello che invece avvenne nelle settimane e negli anni successivi è inutile ricordarlo, le arene mestamente silenziose, risuonanti solo del rumore della palla che rimbalzava sul parquet e dallo stridio delle suole di gomma dei giocatori, misero il primo macigno sulla luna di miele fra la pallacanestro triestina ed il suo Red Wall, inaugurata ad inizio 2017 agli albori della controversa era Alma e conclusa definitivamente tre anni dopo.

La pandemia fu, però, solo la causa scatenante di una disaffezione che da allora mise radici diventate difficilissime da estirpare. A nulla servirono altri tre campionati in Serie A, avversarie di rango, campioni affermati, playoff e final eight di Coppa Italia. Da quel 2 febbraio 2020 il pienone non fece mai più capolino al Palatrieste, che anche dopo la definitiva riapertura continuò a restituire quasi sempre un colpo d’occhio poco meno che desolante. La Pallacanestro Trieste rimase ostaggio di un mix di mancanza di ambizione, di poca voglia di osare, di un senso di incompiutezza e demotivazione che alla lunga annoiò ed infine allontanò anche lo zoccolo duro della fan base. Ci si mise anche un atteggiamento inconsapevolmente altezzoso, una chiusura volontaria in una torre d’avorio che la tolse dai radar della popolarità, sparendo dalle priorità di tifosi alle prese, dal canto loro, con la pesante crisi economica. Intendiamoci, non è che salvarsi per quattro anni, sfiorare traguardi importanti, cogliere qualche vittoria insperata, allestire roster utilizzando budget da inventare e rimettere insieme ogni anno, mantenendo i conti in equilibrio, non sia da considerarsi un’impresa ai limiti dell’eroico. Semplicemente, la mancanza della giusta faccia tosta, di quella sana cazzima arrembante che dovrebbe pervadere ogni franchigia “minore” rese la Pallacanestro Trieste, un po’ alla volta, un prodotto di nicchia, una rivista patinata per specialisti anziché qualcosa in cui riconoscersi. Aggiungiamoci la costruzione poco efficace dell’immagine, di gran lunga meno accattivante di quella giovane e divertente del periodo Alma, ed ecco spiegato anche il progressivo allontanamento delle schiere di ragazzini che stipavano le gradinate e la curva fino a pochi mesi prima. 

Una delittuosa retrocessione, arrivata proprio con coach triestino in panchina, costituì il punto più basso del precipizio. Nel maggio 2023 sembrava davvero tutto finito, il ritorno nell’anonimato di una categoria apparentemente priva di attrattive e l’incertezza sulle intenzioni di una proprietà di cui si sapeva pochissimo (e che tutto sommato rimase piuttosto inerte nell’ultima parte di stagione) fece capolino anche fra i più ottimisti. Eppure, toccato il fondo, alcuni decisi segni di cambiamento sembrano destinati a spazzare via, come potenti refoli di bora, anni di delusioni e oscurità, facendo sbocciare nuovamente il flirt con la città partendo dalla riconquista dei tifosi più piccoli.

Per prima cosa, CSG ha approfittato della debacle sportiva per resettare completamente l’assetto organizzativo, individuando principalmente in esso le maggiori responsabilità del fallimento. La proprietà (intesa come compagine sociale) sarà anche giovane, ma è costituita da un gruppo di professionisti di formazione anglosassone con le idee estremamente chiare, così come è molto chiaro il loro modo di esprimersi. Proprio la chiarezza è diventata la cifra distintiva della nuova impostazione del club. Cotogna non si sarebbe potuta permettere di fallire la propria missione al primo tentativo, Trieste è l’esperienza con la quale si presenta al mondo. E’ per questo che, pur con poche parole e presenza sporadica in città ha individuato uno ed un solo obiettivo per la prossima stagione: non si individuano alternative, non si vola bassi, non si usa prudenza, non si vuole prima raggiungere la salvezza e poi “vedremo quello che arriverà”. Della serie: noi mettiamo in campo tutto ciò che è necessario, ora o si arriva primi o si fallisce. L’ambizione in questo caso non è imprudenza, non è arroganza, non è presunzione. E’ l’unica chiave per raggiungere il target prefissato, e per questo è un atteggiamento logico, onesto anche se destabilizzante perché completamente desueto (gli unici due precedenti accomunabili sono l’era Stefanel e quella Scavone, che però, si seppe poi, di onesto aveva ben poco).

Per stravolgere una mentalità radicata ed instillarne una completamente nuova, però, non era sufficiente azzerare il club, era necessario anche farlo ripartire. Il game changer individuato, probabilmente inseguito già in tempi non sospetti precedenti alla retrocessione, è impersonato da un altro americano, che costituisce la chiave di volta della nuova architettura societaria e sportiva. Michael Arcieri non è solo una foto sorridente che regge il Grammy per il miglior dirigente dell’anno. Dopo quasi cinque mesi in città ha immediatamente individuato le aree di miglioramento, si è immerso nella palude della A2 dalla quale dovrà uscire con tutta la squadra, ha raccolto e fatto propria una sfida professionale ed umana stimolante ed ai limiti dell’impossibile.

“La prima cosa che mi è stata detta quando sono arrivato a Trieste” dice “è ‘occhio al derby’. La seconda è che dopo anni da separati in casa sarebbe stato indispensabile riavvicinare la squadra alla città, tornare a far passare il concetto che la Pallacanestro Trieste non è di CSG o del proprietario di turno, ma appartiene alla città“. Ancora prima di scegliere i giocatori e l’allenatore, Arcieri si è mosso proprio in questa direzione. Un newyorkese che comprende al volo il mood scontroso e brontolone, inguaribilmente provinciale, di una piccola città di basket e agisce per riconquistarla con un atteggiamento schietto, concetti chiari, nessun argomento tabù, uno spirito da battaglia che fa molto settimo cavalleggeri e molto poco Prima Repubblica. Certo, il processo è lungo e prevede tappe intermedie, non sarà privo di passi falsi ma la strada è segnata. Il lancio del Dipartimento Community and Fan Engagement -ufficio per il coinvolgimento della comunità cittadina ed i tifosi- sulla falsa riga di quanto creato a Varese l’anno scorso, viene ritenuto strategico in questo senso. L’ufficio è diretto su base volontaria da Mariabeatrice Cavarretta, moglie di Arcieri, che ha già proposto una giornata di full immersion con i tifosi, specie i più piccoli, una sorta di comunione fra giocatori e sostenitori. Le iniziative in preparazione sono numerose ed inedite, la volontà di fare del Palatrieste un’immagine esportabile oltre oceano è strategica, ma l’interesse di CSG ha l’effetto collaterale di ridonare alla gente una squadra in cui specchiarsi.

E poi, naturalmente, c’è l’aspetto sportivo, totalmente stravolto. Intanto lo scouting in prima persona con il volo di Arcieri alla Summer League di Las Vegas in luglio, i contatti diretti con giocatori, procuratori, dirigenti di franchigie americane. La scelta di affidarsi alla voglia di riscatto di cinque reduci dalla fallimentare ultima stagione, la sfacciataggine di provare (e riuscire) a portare a Trieste almeno uno straniero di livello fuori scala per la A2, la volontà precisa di scegliere i giocatori prima (molto prima) per le loro qualità umane, le loro doti di leadership, la loro etica di lavoro, che per le capacità tecniche. La costruzione di un roster equilibrato, logico per il tipo di gioco che si vuole proporre, costituito per 9/10 da giocatori che nella passata stagione giocavano in Serie A ma ai quali non difetta l’esperienza anche nella serie minore, anche se magari un po’ datata. Dieci potenziali alpha player intercambiabili, una lunghezza di rotazioni ineguagliato in A2 che alla lunga, quando incomberà la fase più importante della stagione, non potrà che rivelarsi la carta migliore da giocare.

Ed infine, naturalmente, la scelta più sorprendente ed innovativa di tutte: quando le altre viravano sui rassicuranti Caja, Sacchetti, Martino, Vertemati, Pillastrini -Cantù a quanto pare non era poi così rassicurata da Sacchetti, che non inizierà nemmeno la stagione- Arcieri pesca un coniglio dal cilindro, un coach universitario alla prima esperienza fuori dal sud degli Stati Uniti innamorato del basket europeo, uno che di mestiere fa il motivatore e che arriva a Trieste con un sorriso che trasmette ottimismo che non si spegne in nessuna occasione ed in alcuna situazione. Il duo Arcieri-Christian sembra collaborare su ogni minimo particolare, nulla sfugge né in campo né intorno ad esso, ogni aspetto di ogni giocatore è conosciuto, studiato, analizzato, se necessario corretto ed instradato in funzione del vantaggio per la squadra, in vista dell’obiettivo finale. Un metodo innovativo e spiazzante per giocatori super esperti con moltissime stagioni -ed allenatori- alle spalle, ma che Jamion Christian è riuscito a convincere, stimolare e sfidare. A Trieste si tornerà a vedere un basket divertente, molto più libero e dunque spettacolare di quello un po’ talebano proposto negli ultimi dieci anni. Sarà una pallacanestro molto più elaborata dell’apparente e semplicistico “corri e tira“, molto più adattiva rispetto al gioco delle avversarie, in grado di sfruttare la profondità di giocatori in grado di svolgere tanti compiti diversi nel corso della stessa partita. Ma anche di gran lunga più veloce, con conclusioni cercate nei primi cinque-dieci secondi di azione, con moltissimi tentativi da tre e tantissima corsa. Un tipo di gioco, insomma, che seppur ideato per segnare un punto più dell’avversario avrà anch’esso il non poco importante effetto collaterale di infiammare l’arena, coinvolgerla ed attrarre nuovamente gli scettici. Anche se, si sa, la miglior medicina rimane la vittoria: avere un club ambizioso, che gioca per vincere è un buon viatico per ripartire. Vederlo vincere e lottare in testa alla classifica sarà l’unico modo per riuscirci.

In ultima analisi, dunque, la retrocessione rimane indubbiamente un prezzo salatissimo pagato da ognuno dei tifosi biancorossi e dalla proprietà americana. Ma se questo prezzo si rivelerà il corrispettivo per una rifondazione del concept, per una ripartenza vincente, allora il trauma che ne è conseguito può essere metabolizzato di buon grado perché verrà dimenticato velocemente, indipendentemente dalla categoria in cui si giocherà da mercoledì prossimo. CSG, Michael Arcieri, Jamion Christian e la squadra sanno cosa vogliono e come raggiungerlo, e meritano il beneficio del dubbio. Ora la palla rimbalzante passa al campo. Quella figurata alla città, sempre se vorrà godersi ancora il basket di vertice dal vivo per gli anni a venire.