29 Agosto 2018. E’ una bella e calda serata, la squadra si è ritrovata da neanche una decina di giorni. Durate l’estate se ne sono andati Javonte Green, Laurence Bowers e Bobo Prandin, Lollo Baldasso, Federico Loschi e Federico Mussini, figli che ognuno di noi avrebbe voluto avere. Con la voce ancora provata dalla trasferta di Casale e negli occhi lo spettacolo della festa finale in piazza Unità, c’era grande attesa per scoprire a chi la società avrebbe affidato il compito di affrontare e mantenere la riconquistata serie A. Viene allestito un gruppo con nomi non certo altisonanti, attorno a due veterani come Peric e Wright, arrivano un rookie, Devondrick Walker, ed una manciata di protagonisti della precedente stagione di A2. E’ il giorno del primo scrimmage nella palestra di Capodistria, contro la squadra locale. Le gambe sono imballate, non c’è chimica, non c’è fiato. C’è un giocatore, preso per fare il centro, che apparentemente non riesce a staccare i talloni dal suolo. Gli viene accreditato il soprannome di Ascensore Umano, però sembra un pesce fuor d’acqua, non cattura un rimbalzo, non vede mai il canestro, non riesce nemmeno a saltare. Intorno a me, anche se è tanto, troppo presto, vedo molto scetticismo. Qualcuno scuote la testa, qualcun altro sorride quasi sconsolato. Uscendo dal parcheggio per tornare a casa, quella sera confido ai miei compagni di viaggio “quest’anno ci sarà da soffrire. Dove vuoi che questi riescano ad arrivare…”.
25 Maggio 2019. Mi ritrovo ad incrociare lo sguardo di Will Mosley. Stiamo facendo lo stesso gesto, lui in campo, io sugli spalti: diciamo di no! “Not In My House”! Il mio vicino di posto, ultracinquantenne come me, è finito esultando due gradoni più sotto. The Human Elevator ha appena stoppato a quattro metri da terra un tiro di Mathiang. E’ gara 4, sono i quarti di finale dei playoff scudetto e 6500 persone vestite di rosso attorno a me non riescono ancora a credere a ciò che stanno vedendo.
Tutto quello che sta in mezzo è la cronaca di una pura magia, di una stagione irripetibile che ha esaltato all’ennesima potenza il legame di questa città con la sua squadra, di Trieste con il basket, del red wall con il cuore dei suoi ragazzi. Ciò che dice Andrea Coronica al termine della partita contro Cremona, che decreta la fine dell’avventura biancorossa, non potrebbe essere più vero: “A Trieste ogni volta che finisce una stagione tutti si affrettano a dire “non sarà mai più così”. E poi, invece, tutto ricomincia più grande e coinvolgente di prima”.
Ho isolato pochi flash che riassumono le emozioni che ho provato negli ultimi sette mesi. Non è certo un racconto, né può essere un elenco esaustivo. Sono solo alcune tessere di un mosaico meraviglioso, nel quale ognuno, come me, può aggiungere il suo personale tassello.
La palla rubata ad Aradori con canestro in sottomano di Matteo Schina a pochi secondi dal termine della partita d’esordio suo e della squadra in serie A. Diamante grezzo, money in the bank per il futuro.
Il viso sorridente di Zoran Dragic durante la conferenza stampa di presentazione. Contagia tutti con l’illusione che l’arrivo del primo vero top player sia il trampolino di lancio verso progetti ambiziosi da parte della proprietà, l’imbocco di una strada a senso unico verso l’alto. Nulla di più fugace…
La frattura al mignolo della mano destra di Hrvoje Peric durante l’ultimo quarto della partita contro Torino. Si va ai supplementari, il croato non ne vuole sapere di uscire, stringe i denti e realizza i due tiri liberi decisivi. E’ un segnale: qui non si molla. Mai.
E’ il 26 marzo, verso mezzogiorno. Lo smarrimento, il senso di vuoto e di delusione si propagano in città alla velocità della luce, o meglio a quella consentita dai social. Arrivano notizie incredibili, quasi irreali. Ci svegliamo da un sogno troppo bello per essere vero, crolla il castello di carta costruito negli ultimi due anni e con esso tutte le illusioni. Prevale il pessimismo, non sappiamo neanche se si potrà finire la stagione. Ma l’abbiamo detto prima: qui non si molla. Mai.
L’atmosfera all’interno dell’Allianz Dome prima, durante e dopo la partita di ritorno contro Cremona. Descrivere le emozioni di quel giorno è impossibile, perché ognuno di noi le ha vissute a modo suo. L’abbraccio della città alla sua squadra è commovente, la risposta della squadra, che cavalca l’onda emotiva anziché farsene travolgere, lo è altrettanto. Gli avversari accusano il colpo, sono intimiditi, quasi ipnotizzati. Quel giorno si innesca il detonatore che porta una buona stagione a diventare indimenticabile. Da quella partita in poi la squadra va in trance agonistica, vive un delirio di onnipotenza che fa sembrare raggiungibile qualunque obiettivo.
Il sorriso sornione di Gianmarco Pozzecco quando lo intervisto al termine della partita con Sassari. Cerco di mimetizzarmi indossando una felpa, ma non mi accorgo che da sotto spunta, evidente, una maglietta rossa con un’alabarda. Lui mi guarda e dice “ciò, vedo che te son imparziale… va ben dei, tifo anche mi per voi”. Grande Poz
Milano, ultima partita della stagione regolare. Mancano pochi secondi, si va verso la sconfitta al Forum. Daniele Cavaliero dalla panchina si agita verso lo spicchio di tribuna riservato ai 500 triestini che hanno seguito la squadra in Lombardia. Ha le braccia alzate, una mano aperta e con l’altra mostra due dita. Sette? Cosa vuol dire? Possibile che sia la posizione raggiunta da una matricola che in pochi avrebbero scommesso si potesse salvare?
Gara 3 dei quarti di finale contro Cremona. La Curva mette in scena la rappresentazione migliore di sempre. Un cielo punteggiato dalle stelle simbolo dell’Europa fa da sfondo ad una Marinaresca corale, struggente, di una bellezza abbacinante. Eurosport interrompe il suo commento per rispetto ed ammirazione. La definirà “l’inno della città di Trieste”. Diventerà di certo l’inno del Palatrieste.
Le lacrime di Andrea Mario, voce della curva ed instancabile giramondo assieme al manipolo più o meno numeroso di folli che non hanno mai lasciato sola la squadra, nemmeno nelle trasferte più lontane ed improbabili. Al termine di Gara 4, l’ultima di una stagione emotivamente impegnativa, Mario si scioglie in un pianto liberatorio e di speranza, i suoi occhi lucidi e la sua voce rotta sono quelli di ognuno di noi.
Ieri sera abbiamo perso. Nessuno se n’è curato, è andata così, il cuore dei nostri ragazzi è rimasto sul campo assieme al nostro, e tanto basta. Questa mattina, mi sveglio e sento che mio figlio è sotto la doccia. Sta cantando “Vorrei che fosse ogni giorno domenica”.
Già, lo vorremmo tutti.
A Kind Of Magic (Queen, EMI Records, 1986)