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La palla sgonfia

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Due grandi realtà sportive. Due club gloriosi, che hanno rappresentato e reso orgogliosa una città intera. Due impianti fra i più belli e moderni in Italia. Accomunate, oggi, da un futuro nebuloso, caratterizzato da un’incertezza che alterna ottimismo illusorio a realistico pessimismo. Unite, anche, dalla discutibile prerogativa che le vede entrambe pressoché ignorate dal tessuto economico cittadino. Un tessuto disposto, talvolta, ad elargire briciole sotto forma di sponsorizzazioni rigorosamente di livello “silver” se non “bronze” (certo non “main” o “platinum”), che asseritamente preferisce piuttosto finanziare progetti green, nel sociale o in missioni di beneficienza, ma pur sempre pronto ad occupare prestigiosi e (sulla carta) costosissimi scranni di prima fila al Dome o poltrone riscaldate in pelle umana al Rocco. La classe politica, quella no: a voce non le ha abbandonate, un tifoso=un voto, il resto va da sé.

Certo le eccezioni virtuose non mancano, specie nel basket, anche se in passato gli imprenditori locali disposti ad investire o a fungere da rete di salvezza per la pallacanestro di casa si possono contare sulle dita di mezza mano. Illy nel dopo Stefanel, la neonata Genertel, Acegas nei faticosi anni della rinascita post fallimento. Ed ancora, nel dopo Alma, la sopravvivenza è stata garantita dai fragili quanto vitali puntelli forniti dalle aziende di Marco Bono e Luca Farina (sebbene Orion abbia base in Brianza e non a Trieste), per finire con la lodevole quanto misteriosa operazione che porterà il gruppo Edilimpianti a far parte della compagine sociale nei prossimi giorni. Operazione che, da sola, non potrà peraltro garantire per dimensioni e sostenibilità nel tempo un budget sufficiente ad affrontare un campionato di Serie A né la possibilità di immaginare progetti sportivi a medio termine. Ci sarà bisogno, pertanto, dell’indispensabile apporto di ulteriori importanti sponsor oltre a quelli minori che già fanno parte del pool. Se arriveranno, Trieste potrà con ogni probabilità iscriversi e partecipare alla prossima serie A, sebbene con prospettive al ribasso, volte essenzialmente al raggiungimento di una faticosa salvezza. Però, se arriveranno, possiamo già scommettere sul fatto che non si tratterà di aziende legate alla città, ma piuttosto imprese aliene tirate per la giacchetta da mediatori, lobbisti, amici di amici ai quali è difficile dire di no: insomma, partner non certo veramente interessati ad investire sul futuro della pallacanestro a Trieste. Ovviamente pecunia non olet, ma l’esempio virtuoso e lungimirante di Samer nella pallanuoto rimane un’utopia lontanissima. Non resta che attendere l’assemblea dei soci convocata per il 10 giugno, e soprattutto i giorni successivi nei quali si dovrà procedere all’individuazione delle figure deputate a prendere le decisioni in ambito sportivo. Le nuvole non si sono diradate, il passato induce alla prudenza, le voci più disparate (spesso generate dalla quasi totale assenza di comunicazioni ufficiali) sono ormai incontrollabili, intanto il tempo passa inesorabile e sottrae occasioni di mercato: la palla, ormai mezza sgonfia, è in mano a vecchi e nuovi protagonisti.

Diversa, e per certi versi più drammatica, è la situazione della Triestina. Diversa perché le deadlines legate all’iscrizione alla prossima Serie C sono ormai incombenti e ben difficilmente potranno essere rispettate. Drammatica perché nasce dalla tragica morte del presidente Mario Biasin, unico mecenatesco benefattore, che ne ha garantito da solo la sopravvivenza negli ultimi cinque anni. Anche l’Unione, dal canto suo, è storicamente abbandonata dall’imprenditoria locale, che non ha mosso un dito nè prima nè dopo l’ultimo fallimento, facendo da spettatrice non pagante negli anni di reggenza australiana. Oggi è ben difficilmente credibile la promessa di mobilitazione di fantomatiche (quanto inesistenti) cordate triestine annunciata in modo vagamente improvvido dal sindaco Dipiazza. Ed infatti è proprio Mauro Milanese, di ritorno dalle celebrazioni funebri del cugino emigrato, a lanciare un più realistico grido di dolore, preannunciando la necessità di vendere per non fallire nuovamente. Vendere, certo, ma a chi? Sarebbe necessario individuare un acquirente serio e credibile, disposto ad appianare i debiti pregressi (la Triestina si rivela di gran lunga più “cicala” della formichina Pallacanestro Trieste in questo senso, del resto il fiume inarrestabile di dollari australiani non induceva a particolari prudenze fino a metà maggio) e ad aggiungerci una cifra non chiara ma certamente molto superiore ai dieci milioni. Questo, naturalmente, non prima di aver svolto quella che con termine ultimamente abusato viene definita due diligence, che altro non è che una radiografia della contabilità della società in vendita in modo da individuarne punti deboli o carenze per poter tirare sul prezzo. Questo al fine di affrontare un’attività sicuramente in perdita per il solo gusto di salvare il calcio cittadino, in una categoria completamente ignorata da TV e giornali, senza parlare delle presenze dei tifosi allo stadio. Operazione da completare entro il 22 giugno, data entro la quale sarebbe necessario formalizzare l’iscrizione al campionato. Definire improbabile che una task force imprenditoriale, magari locale, intervenga con tale agile magnanimità è alquanto riduttivo. Sperare che esista veramente chi, sul territorio provinciale, sia disposto a provarci, è totalmente illusorio, quando non fuorviante. Pensare realisticamente di riuscire a costituire una collaborazione interforze fra i sostenitori economici del basket e quelli del calcio significa non comprendere che le già scarse risorse destinate allo sport sull’uno o l’altro fronte ne uscirebbero svilite anziché moltiplicate, non riuscendo perciò a risolvere alcun problema. Se a ciò si aggiunge la strisciante antipatia guadagnata in molti ambienti sportivi, economici ed addirittura nei circoli dei tifosi più accesi negli ultimi anni dalla società rossoalabardata (è inutile far finta di niente ed abbandonarsi all’amarcord…. l’Unione non è più il “faro” calcistico cittadino che fu negli anni ’80 ed all’inizio del millennio, ed i social, sebbene poco attendibili e spesso inopportuni, sono l’esatto termometro di tale situazione) credere realisticamente in un lieto fine per l’era Milanese significa essere, se non completamente ciechi, perlomeno miopi.

In entrambi i casi, comunque, l’imprenditore locale che potrebbe rivelarsi il vero fulcro del futuro di Pallacanestro Trieste e Triestina, indirizzandone il destino, alternativamente, verso l’eutanasia o verso la sopravvivenza è quello di sempre: il pubblico. Nel primo anno del post pandemia, tornare ad affollare le gradinate di due splendidi impianti che rischiano di ridursi ad inutili cattedrali nel deserto, oltre a donare una boccata di ossigeno dal punto di vista finanziario, potrebbe spingere qualche investitore indeciso a sposare la causa sportiva cittadina. E’ ora che i triestini, per una volta, capiscano che il futuro non dipenda sempre, solo e comunque “dagli altri”. Che le responsabilità non devono per forza essere scaricate su colpevoli che sistematicamente vanno individuati altrove. E’ ora che Trieste torni ad essere padrona del proprio destino. E’ ora o mai più.