Qualunque sia la battaglia che Juan Fernandez stia combattendo, qualunque sia il motivo che l’ha costretto a prendere una decisione che mai avrebbe voluto prendere, la drammatica vicenda che pone fine in modo incompiuto alla storia d’amore fra il Lobito e la città che l’ha adottato ha il merito, se non altro, di aver ricompattato un popolo diviso, una comunità lacerata da mesi di contrasti e tensioni fra fazioni divise ed inconciliabili. L’abbraccio all’uomo prima che al giocatore e l’accettazione a scatola chiusa di una decisione che deve aver lacerato il suo cuore prima ancora di quello dei triestini, ha unito in modo trasversale, per la prima volta a memoria d’uomo, tifosi e simpatizzanti, mamme e ultrà, spettatori ed addetti ai lavori, club e giornalisti, in un coro unanime di solidarietà e riconoscenza senza riserve.
La vicenda umana di un uomo che apparentemente ha tutto, giovinezza, bellezza e successo, una splendida famiglia e tanti amici, un lavoro che ama, lo appaga e gli dà la sicurezza economica, e che si mostra improvvisamente vulnerabile, piegato da una battaglia che in questo momento evidentemente non può vincere con armi convenzionali, ha colpito in modo profondo le coscienze di tutti. Il suo percorso, divenuto difficile come quello di chiunque altro, lo estrae con violenza dal mondo virtuale, patinato e scintillante dei social e lo rende l’esempio umano di uno slogan talvolta abusato fra i tifosi più accesi, ma quasi mai veramente adatto a giocatori girovaghi e poco attenti al posto in cui sono temporaneamente ospiti: il Lobito è veramente uno di noi.
La storia sportiva di Juan Fernandez non fa che avvalorare questa tesi: poche volte nella storia della Pallacanestro Trieste un giocatore (non triestino) si è tatuato sul corpo, come ha fatto lui, il jersey biancorosso con l’alabarda, al di là ed oltre i risultati, le vittorie, le promozioni, i trionfi all’ultimo secondo, le sconfitte ed i drammi vissuti tutti assieme. Forse, solo Rich Laurel, che dopo quarant’anni vive ancora in città. Non è difficile prevedere che, una volta che Daniele Cavaliero, quarantenne, avesse appeso le scarpe al chiodo, il suo successore naturale come capitano sarebbe stato proprio il Lobito, che nonostante l’attaccamento viscerale e caratteriale alla sua patria d’origine, avrebbe probabilmente chiuso la sua carriera in riva all’Adriatico. Dio non voglia che lo abbia fatto comunque, ma nel modo che nessuno, proprio nessuno, avrebbe voluto.
Probabilmente nemmeno lui sa ancora se il suo legame sportivo con Trieste si sia concluso martedì 25 gennaio 2022. Il legame sentimentale, invece, non si romperà mai. Ma se quella maglia con il numero 4, divenuta talmente consueta, quasi scontata e rassicurante per tutti gli appassionati triestini, non dovesse mai più calarsi sulle spalle di Juan Manuel Fernandez, allora quella maglia è giusto che a Trieste non la indossi più nessuno. E’ giusto che, per la prima volta nella storia del club, quella maglia penda per sempre, immortale, dal tetto del Palatrieste.