Un vincente vero, una persona non facile in certi momenti, ma uno vero. Con l’orgoglio di sentirmi, ancora oggi, chiamare “my brother” dal grande Steve
Frank Vitucci, il giorno dell’ingresso di Steve Burtt nella NYC Basketball Hall Of Fame nel 2016
3 marzo 1995, PalaMalaguti a Casalecchio di Reno. Mancano 20 secondi al termine della finale di Coppa Italia e la Benetton Treviso guidata da Mike d’Antoni, con Orlando Woolridge e Petar Naumoski astri splendenti del campionato di A1, conserva un piccolissimo vantaggio, nemmeno un possesso pieno: è 77-76, ma l’ultima azione è per Trieste. E nella Illycaffè gioca uno che difficilmente sbaglia l’ultimo tiro, uno che ne mette 30 a partita, uno che il pallone devi toglierglielo dalle mani minacciandolo. Le Final Four vengono trasmesse a pagamento da Tele+2, e a metà degli anni 90 i decoder satellitari non li trovi ancora in ogni casa: quindi, quel venerdì sera, i bar ed i pub di Trieste sono pieni all’inverosimile di tifosi alla disperata ricerca di un televisore che mostri la partita dopo che, contro ogni logica, la Illy aveva eliminato appena 24 ore prima i vicecampioni d’Italia della Scavolini in semifinale scatenando una febbre che sembrava definitivamente sopita, per la gioia dei numerosi tifosi che avevano scelto di seguirla dal vivo nell’avventura in terra felsinea.
Venti secondi al compimento della favola dell’underdog. Tutti si allargano, la stoccata della vittoria biancorossa, lo sanno anche i sedili del palazzone bolognese, sarà inferta da Steve Burtt. Persino Flavio Tranquillo e Federico Buffa, dream team dei commentatori del basket a Telepiù, in un caso più unico che raro tacciono in attesa dell’annunciata invenzione del newyorkese. La storia, vai a sapere perché, sarà incredibilmente diversa. Burtt, proprio quando tutti si aspettano la giocata della storia, pasticcia in penetrazione, poi, invece di eseguire l’unico tiro che allenatore e compagni di squadra anelino sia proprio lui ad eseguire, scarica malamente il pallone verso un sorpreso quanto terrorizzato Claudio Pol Bodetto che forse subisce fallo, forse no, si sa solo che perde palla. Trieste commette fallo, Treviso segna entrambi i tiri liberi, poi i falli sistematici fissano il risultato sull’81-77 ed i bar di Trieste, pronti a prosciugare le riserve di birra, rimangono con l’urlo strozzato in gola. Subito dopo, le riserve di birra vengono comunque prosciugate, ma per consolazione invece che per festeggiare.
Steve Burtt è così: l’imprevedibilità, l’incostanza fatta persona. Una vita “contro”, un uomo dotato di un incredibile talento cestistico nato e cresciuto nei playground di Harlem, eclissato da un carattere che non lo rende certo popolare fra i compagni di squadra e gli allenatori chiamati a gestirlo, almeno fino alla sua prima avventura triestina.
Harlem negli anni 70 non è esattamente il posto giusto per riscattare una vita che già parte ad handicap: Steve ed i suoi tre fratelli rimangono orfani quando sono ancora bambini e vengono tirati su dalla nonna, non vivono nella povertà ma la loro esistenza pare già ben indirizzata. La chiave, l’unica disponibile, è la pallacanestro: il ragazzo gioca, accidenti se gioca. Segna, segna a ripetizione, il pallone che esce dalle sue mani sembra essere attratto da una calamita dal canestro: vince qualcosa come una cinquantina di tornei all’aperto, guadagna una certa notorietà nell’ambiente. Entra all’università di Iona a New Rochelle, poco lontano da casa, dove con i Gaels batterà ogni record di punti segnati, oltre a conseguire una laurea in criminologia che alla lunga suonerà perlomeno ironica. L’unico record realizzato all’epoca che non ha resistito al tempo è quello dei punti in una singola stagione: il primato gli verrà strappato nel 2006 da Steve Burtt….Jr. Dopo una carriera di vertice in NCAA, il grande salto da protagonista nell’NBA pare la naturale conseguenza. Per sua sfortuna, però, il draft NBA nel suo anno da senior è quello del 1984. Quello di Michael Jordan, Hakeem Olajuwon, James Worthy, Charles Barkley e John Stockton. Steve viene scelto al secondo giro, con il numero 30 assoluto, da Golden State. Ma ad Oakland non troverà i riflettori ad attenderlo, e nonostante i tre anni di permanenza nella Bay Area non si conquista spazi nelle rotazioni, del resto con il suo fisico non può competere con le muscolari guardie che negli anni ’80 imperversano nella lega. Prova allora la via della D-League, approda per qualche partita ai Los Angeles Clippers nel 1987, poi ai Phoenix Suns nel 1991 per finire ai Washington Bullets nel 1993, dove segna anche 11 punti di media a partita. Ma la strada è segnata: la sua dimensione ideale è al di qua dell’oceano, in un continente cestisticamente in grande ascesa nel quale uno come lui può essere una superstar. Così, dopo 101 partite fra i professionisti ed alterne fortune, nel 1992 approda all’Iraklis Salonicco. In Grecia gioca una manciata di partite a 30 di media, poi, tornando da un permesso negli Stati Uniti nel novembre di quell’anno, i cani antidroga dell’aeroporto di Atene si eccitano in modo sospetto: il bagaglio a mano di questo stravagante viaggiatore contiene qualche grammo di hashish ed un po’ di cocaina. Quantità evidentemente destinate a costituire la sua scorta personale per consolarsi durante il lungo inverno sul Mar Egeo e non sufficienti per incriminarlo, ma abbondantemente sufficienti, invece, per farlo cacciare a vita dal campionato ellenico. Se ne torna a New York, giochicchia in un paio di squadre in D-League, nell’attesa di un’altra chiamata dal vecchio continente. Chiamata che arriva da Israele nell’estate del 1993: al Maccabi Rishon LeZion torna a strabiliare violentando a ripetizione le retine nel campionato dello Stato Ebraico, rimanendo talmente impresso nella memoria dei tifosi da venir eletto, e premiato vent’anni dopo, come miglior straniero che abbia mai vestito i colori bianco azzurri del club.
A Trieste, intanto, nell’estate del 1994 si raccolgono i cocci della fuga a Milano della Stefanel, che si porta dietro marchio, soldi, allenatore e quasi tutti i giocatori. In città il trasferimento viene vissuto come uno sfregio, una vera e propria offesa alla storia sportiva triestina, che aveva atteso e supportato il produttore di maglioni della Marca attraverso due retrocessioni e due anni in Serie B, venendone tradita -complice anche l’inerzia della classe politica cittadina- proprio sul più bello, a causa della smaniosa ambizione di Bepi Stefanel di elevare la sfida tra i due maggiori marchi di abbigliamento casual italiani portandola su prestigiosi palcoscenici internazionali.
A soccorrere il club, in un caso unico che non avrà più alcuna replica in futuro, accorre il marchio triestino più famoso nel mondo, nonché azienda di famiglia del sindaco di Trieste: la Illycaffè gli consente di sopravvivere e di iscriversi in A1, eventualità che solo un mese prima pareva un miraggio. Il successore di Tanjevic è il casertano Virginio Bernardi, ma la squadra che gli viene messa a disposizione, che ha in Alberto Tonut la stella, non è certo destinata a ripetere i fasti neroarancio. Oltretutto, come unica “eredità” della semifinale scudetto raggiunta nella stagione precedente, Trieste parteciperà nuovamente alla Coppa Korac, che affrontare con Gattoni, Sabbia, Dallamora, Zamberlan e Cattabiani pare poco più di un’utopia. Bernardi, di conseguenza, fa “all in” con gli stranieri: per il ruolo di guardia punta su un cavallo di ritorno che a Trieste aveva lasciato un ricordo eccezionale, Larry Middleton. Sotto canestro il club vince una sfida a distanza con la Stefanel di Tanjevic ed ingaggia un’ala pivot di grandissima prospettiva, Pete Chilcutt. Ma l’inizio di stagione è alquanto deludente: delle prime 8 partite la Illycaffè ne vince solo due, e ad essere messo per primo sul banco degli imputati è, sorprendetemente, Larry Middleton. Subito dopo la sconfitta casalinga di un punto con Reggio Emilia all’ottava giornata, Bernardi decide per il taglio, ma ora diventa proprio indispensabile uno che la metta dentro, altrimenti salvarsi potrebbe diventare un’impresa, al di lá dei possibili capri espiatori. Ad aggravare inaspettatamente una situazione già quasi disperata, neanche una settimana dopo, al termine di una rovinosa sconfitta da 37 punti di scarto maturato sul campo della Buckler Bologna e l’ennesimo animato scambio di opinioni con il coach in spogliatoio, convinto dai richiami degli Houston Rockets, Pete Chilcutt fa le valigie in fretta e furia e fugge da Trieste appena rientrato dalla trasferta, lasciando Bernardi orfano di un centro straniero di ruolo fino all’arrivo, quasi un mese dopo, del modesto Kevin Thompson.
Il profilo di Steve Burtt, le cui stravaganze non sono certo un mistero, pare quello ideale per sostituire Middleton: un cecchino da trenta punti di media, dotato di un ben noto caratteraccio, ma si spera che il gruppo e l’ambiente dentro e fuori dal campo siano in grado di domarlo. Il cecchino non ha ovviamente alcuna intenzione di essere domato, però ha buon occhio: appena arrivato a Chiarbola individua immediatamente fra i compagni di squadra chi gli farà da fedele spalla, non sul parquet (un solista come lui non ne ha certo bisogno), ma nelle interminabili fumate di “calumet aromatico” in cima al Molo Audace, che diventa in breve tempo il suo buen ritiro durante la settimana. A dire tutta la verità, è un ragazzo estremamente intelligente: si ambienta immediatamente in città, ne apprezza, studia e capisce la cultura, si diverte con la bora, mangia nei buffet cittadini. Però si allena quando e come vuole lui, tendenzialmente solo il venerdì. La domenica ne mette fra i trenta ed i quaranta, ma lo fa in modo totalmente avulso dal resto della squadra e dal volere dell’allenatore, che peraltro, non partecipando agli allenamenti, nemmeno conosce. Tranne che per i suoi compagni di stravizi, diventa presto un oggetto estraneo alla squadra, ma rimane pur sempre indispensabile per compiere la missione del post trasloco neroarancio. E poi, la gente lo adora, e riempie Chiarbola quasi solo per andare ad ammirare le sue invenzioni: Burtt è come quei film controversi stroncati dalla critica ma che incassano miliardi al botteghino… Se fosse per Bernardi, che in quanto a carattere e suscettibilità non teme confronti, Steve Burtt sarebbe destinato al primo aereo per l’aeroporto Kennedy. Rimarrà invece a Trieste fino a fine stagione, portando praticamente da solo la Illycaffè ad una salvezza tranquilla ed ai quarti di finale in Korac dopo aver superato due turni preliminari e la fase a gironi, cedendo solo al ritorno in Spagna con il Caceres, nonostante le lapidi già piantate sui resti di una società lasciata in macerie dalla fuga di Stefanel, ma probabilmente negandole di entrare nella storia con il primo, inatteso, insperato, incredibile nonché unico trofeo in bacheca. Proprio contro la Stefanel Milano, l’8 gennaio 1995, si gioca una partita surreale, tesa, carica di livore e risentimento canalizzato contro i “traditori”, in verità protagonisti passivi della decisione del proprietario del vapore. Burtt -senza che ciò sia una sorpresa per nessuno- è l’unico a ribellarsi alla rassegnazione ed all’impotenza che attanaglia tutti i suoi compagni, presi a pallonate dagli ex idoli di Chiarbola, decisi a non fare prigionieri dopo che erano stati insultati e sommersi dalle vestigia neroarancio gettate sul parquet per tutto il riscaldamento pre partita: finisce con un massacro da -24, con il pistolero che mette a referto 25 punti e, nonostante i mesti applausi finali del pubblico, torna nello spogliatoio imprecando contro quella che giudica una imperdonabile arrendevolezza.
In estate, nonostante l’insperata salvezza di cui è senza dubbio il maggiore artefice, nessuno pensa lontanamente di confermarlo: approderà alla corte di Frank Vitucci alla Reyer in A2, dove ancora oggi è ricordato come uno dei maggiori eroi della storia della società. Vitucci evidentemente sa come prenderlo e coinvolgerlo, lui si integra con l’ambiente lagunare e, in una drammatica finale promozione contro Rimini nella quale Venezia finisce a -18 alla fine del primo tempo, segna 41 punti in 40 minuti regalando agli oro granata il salto in A1.
Ma la gioia per la promozione in Laguna si spegne presto: a metà luglio il consiglio federale esclude proprio la Reyer dalla massima serie per non essere stata in grado di produrre la documentazione necessaria, decretando così il ripescaggio della Pallacanestro Trieste, retrocessa sul campo al termine della disastrosa stagione precedente.
Burtt, che con Vitucci a Venezia sarebbe rimasto anche gratis, diventa immediatamente oggetto delle attenzioni delle squadre di mezza Serie A1 e di tutta l’A2.
La traccia lasciata a Trieste spinge la Genertel (sponsorizzazione che è, dopo la Illy, un nuovo caso senza repliche per uno dei gioielli dell’economia triestina), per il secondo anno affidata a Furio Steffè, a tentare di riportarlo sotto San Giusto per cercare una difficile salvezza: tutto sommato Steve, nonostante i noti difetti comportamentali, conosce già l’ambiente, e poi è reduce da una seconda stagione in Italia a livelli stratosferici, e si rischia seriamente di trovarselo contro in campionato, magari a rinforzare una diretta avversaria. Burtt accetta senza esitazioni, anche perché lui a Trieste due anni prima era stato da Dio. Ma la missione salvezza, al terzo anno di mediocrità e con un roster evidentemente mal assortito con Guerra, Vianini e Laezza a guidare il gruppo degli italiani, è una chimera anche con uno che viaggia a 34 punti di media. Steve non è cambiato: gioca da solo, è anarchico ed indisciplinato, si allena poco ma è immarcabile per chiunque, ed in ogni caso è l’unico raggio di luce in una squadra che, per il resto, naviga a vista fra problemi di ogni tipo e crisi di risultati. Nel gennaio 1997, il giorno dopo l’ennesima sconfitta interna contro Montecatini, un vertice fra il presidente Cosulich, il general manager Baiguera e coach Steffè decreta che è ora di cambiare: se anche arriverà la retrocessione, bisognerà almeno finire vendendo cara la pelle. Il candidato al taglio, per provare a ripartire e dare una scossa emotiva alla squadra, è Herriman, secondo americano fin lì totalmente anonimo, completamente eclissato dalla soverchiante personalità, dalla classe e dall’egoismo in campo del suo connazionale. Solo due giorni dopo arriva il colpo di scena: Burtt non riesce più ad appoggiare il piede sinistro a causa di una cisti che lo perseguita dai tempi di Venezia. Deve andare in sala operatoria, ma nonostante il fatto non si tratti di una operazione difficile o particolarmente invasiva, non ci pensa nemmeno ad entrare in un ospedale italiano: comunica al club che andrà sotto i ferri a New York, e la sua seconda esperienza triestina finisce così, dopo sole 17 partite. Le lacrime che versa lasciando per l’ultima volta lo spogliatoio dopo aver svuotato l’armadietto sembrano sincere. Il dispiacere della società, invece, è misurabile dalla riga e mezza di comunicato con il quale la città viene informata della decisione del giocatore. Al suo posto, dopo qualche settimana, arriverà Teo Alibegovic, ma ormai la stagione è segnata, e finirà con una inevitabile, quanto annunciata, retrocessione.
Burtt, lasciata Trieste, viene riaccolto a braccia aperte dal suo mentore Vitucci ad Imola dove vince un altro campionato, per poi girovagare lungo lo Stivale prima ad Avellino, poi a Sassari dove conclude la sua carriera nel 2000.
Torna a New York e, pur continuando ad esibirsi nei suoi amati tornei all’aperto, diventa insegnante di ginnastica in una high school di Harlem. Nel 2016, per i suoi trascorsi scolastici ed universitari oltre che professionistici, viene introdotto nella NYC Basketball Hall Of Fame.