Benito, prendo l’aereo, tu fammi trovare scampi e brachetto e poi andiamo al Mandracchio
Ben Coleman, da Barcellona, al telefono con Benito Colmani
Il mese di giugno del 1984 costituisce uno spartiacque epocale per la pallacanestro a Trieste. Mentre dalle radio di tutta Italia Raf suggerisce autocontrollo ed i Frankie Goes To Hollywood consigliano di rilassarsi, Mario De Sisti, confermato sulla panchina contro il volere dell’intera squadra che qualche settimana prima si era salvata dopo aver appoggiato per mesi un piede e mezzo oltre l’orlo del baratro, ha un’intuizione geniale quanto fortunata che definirà le sorti del basket cittadino nel decennio successivo. Durante i suoi due anni alla guida della Liberti Treviso il tecnico ferrarese aveva conosciuto un giovane imprenditore della Marca, erede di un marchio che vorrebbe insidiare il monopolio di Benetton nell’abbigliamento casual italiano. Bepi Stefanel non è ancora alla guida dell’impresa di famiglia, saldamente condotta dal padre Carlo, ma è un appassionato di basket e vorrebbe portare anche sul campo di pallacanestro una sfida commerciale che a metà anni 80 sembra impari. De Sisti suggerisce a Silvio Cosulich, tornato presidente dopo la parentesi Saporito, di avvicinare Stefanel per cercare di convincerlo ad abbinare il quadrifoglio arancione di famiglia alle canotte alabardate. Dirigenti, coach ed imprenditore si ritrovano in un noto ristorante di Treviso, la scintilla fra Cosulich e Bepi Stefanel scatta immediata. La Pallacanestro Trieste diventa Stefanel Trieste, e lo rimarrà, fra trionfi e tragedie, lacrime di gioia e pianti di disperazione, fino all’estate 1994.
Lo sponsor c’è, la squadra no. La riconferma di De Sisti, che peraltro è al secondo anno di un contratto quinquennale, ha provocato la vera e propria diaspora di quella che fino a maggio era la Bic di Dwight Jones ed Alberto Tonut. L’ultima stagione è stata un vero e proprio calvario, e la frattura fra la squadra e l’allenatore è divenuta un vero e proprio canyon. Tonut è stato promesso da tempo alla Peroni Livorno, che nel corso della stagione aveva anche versato un lauto anticipo grazie al quale il club era riuscito a finire il campionato. Dwight Jones ed il suo anello di brillanti avrebbero probabilmente voluto lasciare Trieste già a gennaio dopo l’ennesimo litigio, ed anche se, alla fine dei conti, il califfo texano sia stato il vero grande protagonista della salvezza, viene tagliato nonostante anche lui abbia in tasca un contratto pluriennale. Se ne va a anche Palumbo, i cui rapporti con De Sisti sono ridotti al saluto, ma solo nelle giornate buone. Il tecnico ferrarese ha dunque l’occasione per ricostruire dalle fondamenta una squadra che sia realmente a sua immagine e somiglianza. Il primo colpo è il ritorno di Gianni Bertolotti dopo un solo anno di esilio dorato alla corte dei campioni d’Italia del Bancoroma di Bianchini e Wright. Da Brindisi arriva il playmaker rampante e tutto fosforo Francesco Fischetto. Da Milano si trasferisce il rude friulano Ezio Riva. Finalmente, dopo un lungo corteggiamento, si consuma il matrimonio con Boris Vitez, tiratore e punta di diamante dello Jadran. Della stagione precedente, piú per la gioia di Mestre che di De Sisti, rimane il filiforme centro Paolone Lanza, e vengono aggregati alcuni giovani di belle speranze: Bobicchio, Sterle, Gori e Benito Colmani. Il primo americano a firmare è un’ala che sembra appena uscita da Ufficiale e Gentiluomo, un rookie muscolare da Northern Illinois University che di nome fa Tim Dillon.
Il sogno di De Sisti, che non ne fa mistero con la società, è però un’ala grande di 23 anni, appena scelta al draft NBA al secondo giro con il numero 37 dai Chicago Bulls. I filmati che il coach ha visionato lo hanno impressionato a tal punto da far diventare Ben Coleman una vera e propria ossessione. Ma gli ostacoli sono tanti e costosi: prima di tutto c’è l’NBA, alla quale Ben ed il suo procuratore, un avvocato di New York, danno ovviamente lo ius prime noctis. Chicago nel ruolo è coperta, nel roster ci sono già quattro lunghi e Coleman potrebbe rimanere nell’Illinois solo se almeno uno di loro rientrasse in una trade verso un’altra franchigia liberando spazio sotto canestro. L’offerta triestina arriva comunque “just in case” sul tavolo dell’avvocato Pollak. Dopo un paio di settimane, nonostante il fatto che la situazione ai Bulls non si sia ancora sbloccata, dagli Stati Uniti non arriva alcuna risposta, e le speranze sembrano quindi definitivamente tramontate: De Sisti si rassegna malvolentieri a ricominciare la ricerca del big man. Inaspettato ed improvviso, il 30 agosto il coach vede invece arrivare in sede un fax di Pollak che annuncia un viaggio che il suo assistito ha intenzione di fare dopo pochi giorni a Trieste, tanto per venire a saggiare l’ambiente, ad immergersi in una situazione che il ragazzo non aveva fino ad allora nemmeno considerato.
La famosa trade che avrebbe dovuto sfoltire il reparto dei lunghi di Chicago non era andata a buon fine, ciò nonostante la franchigia di Wind City avrebbe comunque voluto trattenere Coleman, magari parcheggiandolo temporaneamente in qualche franchigia satellite in una lega minore: però, anziché offrirgli un contratto garantito, gli aveva sottoposto una proposta di contratto “aperto”, spingendo procuratore e giocatore a considerare, non si sa quanto volentieri, l’offerta di un club europeo. Silvio Cosulich intuisce l’importanza che il viaggio avrà nella scelta di Ben, e preferisce che non lo affronti da solo, anche perché il suo avvocato-agente avrà comunque l’ultima parola: invita quindi a Trieste anche William Pollak. Dopo tre giorni i due arrivano regolarmente a Milano con un volo da New York, ma “perdono” la coincidenza per Ronchi. Gli allarmi ricominciano a suonare forti in sede: a Milano, infatti, in quei giorni si sta disputando il Mac Donald’s Open a cui partecipano i New Jersey Nets con annesse le sirene dell’NBA, senza considerare il rischio di eventuali assalti da parte della dirigenza dell’Olimpia, anch’essa segnalata sulle tracce del giocatore, come peraltro mezza serie A1. I sospetti sulle reali motivazioni del ritardo di Coleman e Pollak, che lo stesso giorno arrivano a Trieste con il volo serale, sono però dettati solo dalla paranoia. Oppure no: ciò che accade nelle due ore di sosta non programmata all’aeroporto milanese rimarrà per sempre un mistero.
Alla fine, Coleman esce dal gate degli arrivi dell’aeroporto di Ronchi dei Legionari a mezzanotte, indossando un cappello da legionario sahariano che attrae l’attenzione di tutti i passeggeri, anche perchè la sua mole ricoperta da una tuta in acetato azzurro non può certo passare inosservata. Ma, soprattutto, si trascina dietro una montagna di bagagli: “non proprio il carico di chi ha intenzione di fermarsi solo un paio di giorni” è il primo speranzoso pensiero di De Sisti, accompagnato all’aeroporto dal DS Paolo Zini. L’ottovalente emotivo su cui si trova il coach raggiunge l’apice quando, la sera stessa, i due ospiti sono portati in uno dei pochissimi ristoranti del centro ancora aperti all’una di notte di un giovedì qualsiasi: cena frugale senza eccessi, Coleman sembra un asceta dedito alla cura del proprio corpo, ma soprattutto dà proprio l’impressione di uno che è arrivato per restare, altro che gita esplorativa. Nei giorni successivi il trio Cosulich-Zini-De Sisti, per non sbagliare, esibisce davanti ai suoi occhi tutti gli aspetti migliori della città, ristoranti compresi. Lui ed il suo agente però, pur godendosi ringraziando l’inaspettata ospitalità probabilmente chiedendosi se un’accoglienza del genere fosse la norma in Europa (e rimpiangendo di non aver accettato prima), avevano già deciso durante quella prima cena notturna vicino a Piazza Unità: Coleman firma per la prima Pallacanestro Trieste in versione neroarancio. Nella bozza di contratto fa inserire il viaggio della madre da Minneapolis, ma l’immagine del bamboccione che desidera la mamma accanto per affrontare la prima avventura fuori da casa si rivelerà nei mesi successivi quanto di più lontano da un ragazzo che da subito si dimostra a suo agio in una città dove si inserisce senza problemi, diventando assiduo frequentatore di locali e feste tanto quanto illustri predecessori arrivati a Trieste solo pochi anni prima.
Ma, a differenza dei suoi predecessori “maledetti”, Ben è un ragazzo d’oro, simpatico e generoso, educato e leale. Il suo aspetto ed il suo carattere espansivo lo rendono, inutile negarlo, estremamente popolare fra la popolazione femminile triestina, che si affanna a circondarlo con un turnover clamoroso: Ben si presenta agli eventi accompagnato da bellissime ragazze e signore ogni volta rigorosamente diverse. Non ci mette molto ad affezionarsi ai compagni di squadra, che ricambiano il suo affetto. Boris Vitez diventa uno dei suoi migliori amici, uno di quelli che lo rimarranno per sempre. Ma l’affinità maggiore scocca con uno dei giovani della squadra, uno che porta un nome ed un cognome che sembrano uno scherzo: sono infatti la traduzione maccheronica di quelli dell’americano. Benito Colmani diventa da subito la sua ombra dentro e fuori dal campo. Ben viene “adottato” dalla famiglia di Benny, che lo accoglie ogni giorno nella sua trattoria di via Conti, dove lui si sente veramente a casa, tanto da presentarsi spesso e volentieri accompagnato dalla bellezza locale di turno.
Ma è sul campo che Coleman mostra il suo lato migliore, confermando tutte le più ottimistiche attese di De Sisti. La sua postura con il petto prominente, la sua elevazione ed il suo senso della posizione a rimbalzo lo definiscono immediatamente come uno dei migliori centri del campionato. L’ottima tecnica di ball handling, la capacità di palleggiare fra le gambe nel pitturato, le buonissime percentuali al tiro anche dalla media distanza e la spettacolarità nell’attacco diretto al ferro lo rendono un lungo moderno ante litteram, uno che possiede caratteristiche che negli anni ’80 non sono comuni fra lunghi estremamente specializzati, e che gli permettono di giocare con la stessa efficacia sia fronte che spalle a canestro. Senza contare che l’integrazione con Dillon funziona a meraviglia, e che Fischetto è la sua spalla ideale, capace di innescarlo con un’intesa che pare innata. Il 7 ottobre, all’esordio casalingo, la Stefanel supera a sorpresa, con una grande prestazione di squadra, la sontuosa Simac Milano guidata da Dan Peterson, con in campo D’Antoni, Meneghin, Gallinari, Premier e Joe Barry Carrol: finisce 85-80, con Coleman (24 punti e 16 rimbalzi) a dimostrare perché fosse proprio l’Olimpia la prima pretendente alle sue prestazioni. Un mese dopo è in programma a Trieste il derby con l’Australian Udine di Drazen Dalipagic e dell’ex Lakers Swen Nater. La Stefanel domina una partita spettacolare, vincendola 98-91 in un frastuono assordante, con la staffetta Fischetto-Vitez a limitare lo jugoslavo e soprattutto Coleman a dominare su Nater: Ben realizza 36 punti e cattura quasi 20 rimbalzi, prendendosi gioco in più occasioni dell’ex pro. Per il pubblico triestino ce n’è in abbondanza: Coleman conquista Chiarbola quella sera, e diventa l’idolo incontrastato dei ragazzini delle curve, che scandiscono a gran voce il suo nome così come lo leggono: “Cò-lè-màn”. E’ una stagione tranquilla e divertente, in cui Trieste vince le partite che deve vincere per riuscire a salvarsi senza problemi con grande anticipo. Il palazzetto di Chiarbola diventa uno degli epicentri di mesi entusiasmanti per lo sport cittadino, trainato dalla Triestina nella sua sfortunata cavalcata verso la Serie A che si infrange su un rigore sbagliato da Giorgio De Giorgis contro il Monza in un caldo pomeriggio domenicale che a Trieste nessuno dimenticherà mai. Nel vecchio palazzetto ponzianino è l’anno delle prestazioni mostruose di Tanja Pollard, in quel momento forse la miglior giocatrice di basket al mondo, che trascina praticamente da sola la Ledisan ai vertici della pallacanestro nazionale. Ma ci gioca anche lo Jadran di Marko Ban, che in maggio, davanti a quasi 5000 spettatori, centra una storica promozione in Serie B. Ed infine, è anche testimone della solita cavalcata vincente della Cividin, che raccoglie scudetti a ripetizione nella pallamano.
Ad un certo punto, quando mancano cinque giornate al termine della stagione regolare, la Stefanel accarezza addirittura il sogno playoff, che sarebbero conquistati per la prima volta nella storia, ma alla fine arrivano tre sconfitte consecutive nelle ultime tre partite e sarà dodicesimo posto, con una riconferma nella massima serie su cui costruire il futuro.
I mesi sereni passati in città e l’intensa vita sociale non cancellano, però, un sogno mai abbandonato da Ben: a fine stagione, nonostante i tentativi di trattenerlo, la tentazione di riprovarci con l’NBA è per lui irresistibile. Lasciata Trieste, ci riprova con i Bulls, che durante l’estate realizzano l’operazione che avrebbero voluto concludere l’anno prima girandolo a Portland. I Blazers, però, dopo un paio di mesi lo tagliano, e lui non ci pensa due volte: la Stefanel, in quel momento, ha ancora bisogno della sua solidità sotto canestro.
Nell’estate del 1985 De Sisti aveva lasciato la panchina al quarantenne Santi Puglisi, tecnico federale alla prima esperienza su una panchina di Serie A. Il roster, nonostante i proclami del nuovo coach, è un patchwork mal assortito: dalla stagione precedente sono rimasti Colmani, Fischetto e Riva, ma per il resto arrivano giocatori che per la Serie A sono eufemisticamente poco adatti. Ben presto Puglisi viene pesantemente criticato, anche perché con il carattere che si ritrova non fa nulla per rendersi simpatico al pubblico, facendo traboccare il vaso della contestazione con alcune maldestre dichiarazioni durante un’intervista a Telequattro. Pubblico che, esasperato anche da esibizioni scadenti e conseguenti sconfitte, non ci mette molto per tornare a scandire, senza peraltro nutrire reali speranze, “Co-le-man!”. Il presidente Cosulich, inaspettatamente, trova invece le risorse per accontentare la piazza. Ma non è affatto un’operazione facile: la società era rimasta in contatto con Ben per tutta l’estate e tutto l’autunno, in modo da essere pronta nel caso di eventuali ripensamenti del giocatore, che però in testa ha solo l’NBA. A causa di un lieve infortunio ad una caviglia, all’inizio di novembre Portland lo mette prima nella lista degli infortunati, poi lo taglia. Su di lui piombano New York e Milwaukee, che però gli offrono contratti non garantiti, e l’idiosincrasia del giocatore per questo tipo di accordi è ormai nota a Trieste, dove si riaccendono i primi segnali di speranza. 48 ore dopo è l’avvocato Pollak a farsi vivo: “Quanto offrite per un ingaggio fino a fine stagione?“-“Fermi lì, non considerate altre offerte, arrivo e ne parliamo“, ribatte il presidente. Cosulich vola immediatamente a New York, dove si ritrova con l’agente ed il giocatore nello studio di Manhattan: estenuante trattativa di tre ore, accordo raggiunto per 100 mila dollari. Cosulich può ripartire il giorno stesso dall’aeroporto Kennedy con Coleman al suo fianco. Ben torna in città in un freddissimo 20 novembre 1985, alla vigilia della fondamentale sfida salvezza a Brescia, prendendo il posto del deludente James Terry, del quale va ad occupare anche l’appartamento di Roiano. Per assistere al suo primo allenamento e dargli il bentornato accorrono a Chiarbola quasi 400 spettatori carichi di entusiasmo e rinnovata speranza.
Ma nella sua seconda avventura con la Stefanel non sembra lo stesso giocatore di pochi mesi prima. Pur viaggiando mediamente in doppia doppia, i nuovi compagni non sembrano stimolarlo, non entra in sintonia con il coach (che sarà anche lui esonerato e sostituito con Romano Marini) né con il connazionale Craig Shelton, non esattamente fra i piu talentuosi stranieri mai giunti a Trieste. Ben appare svogliato e viziato, si dice sia distratto da vicende extra sportive, che peraltro non erano certo assenti durante sua prima esperienza triestina ma non ne avevano mai influenzato le prestazioni. La stagione finisce con una prevedibile ed inevitabile retrocessione divenuta matematica a tre partite dalla fine del campionato, e lui lascia San Giusto a maggio, stavolta definitivamente. Fra alti e bassi, soprattutto bassi, riabbraccia l’NBA, gioca con i New Jersey Nets, i Philadelphia 76rs ed i Milwaukee Bucks, ma negli Stati Uniti non riesce mai ad imporsi. A fine decennio torna in Europa, prima in Spagna, anche a Barcellona, e poi in Italia, a Roma e Montecatini.
Fra il 1996 ed il 1997 conclude la sua carriera in CBA giocando per due sperdute franchigie fra Nebraska e South Dakota. Dalla primavera del 1986, da quando aveva lasciato per l’ultima volta Trieste, non interrompe mai i contatti con i suoi ex compagni triestini, specie con Boris Vitez e, soprattutto, con il suo amico Benito, che ormai considera un fratello. Negli anni di NBA, nelle rare occasioni in cui riesce a mettersi in luce, ritaglia gli articoli dei giornali che parlano di lui e li manda a Trieste un po’ per vantarsi, un po’ perché sa bene che i suoi amici -in un’epoca in cui il web non ha ancora fatto capolino nelle menti dei geek della Silicon Valley- attendono avidamente le ultime novità dagli States. Durante le stagioni in cui gioca in Europa torna spesso in città, anche solo per una cena di pesce o per una puntata al Mandracchio, dove è ben conosciuto ed ha lasciato il ricordo di innumerevoli conquiste femminili.
Dopo il ritiro, nel 1997, torna a Minneapolis ed apre un negozio di scarpe e pelletteria italiana, che chiama Colmani. Proprio “Benny”, dalle pagine del Piccolo, racconta di quella volta che, nel maggio del 1986, mentre la nube nucleare di Chernobyl minaccia l’Europa occidentale, Coleman lo chiama per esortarlo a mettere in salvo lui e la sua famiglia offrendosi di ospitare tutti a casa sua a Minneapolis: un ragazzone generoso e riconoscente, un po’ naïf e sempre sorridente, per il quale il concetto di amicizia non è solo un concetto astratto.
Nel Minnesota, dopo il ritiro, si dedica ad aiutare ed insegnare basket ai ragazzi nei quartieri più difficili della città, tanto da meritarsi il rispetto e la riconoscenza dell’intera comunità. Ma il destino per lui non ha in serbo nulla di buono. Ben Coleman si spegne in un ospedale di Minneapolis il 6 gennaio del 2019, a soli 57 anni. Rimarrà uno dei giocatori che maggiormente hanno acceso la fantasia ed instillato la voglia di giocare a pallacanestro in un’intera generazione di ragazzi e ragazze triestini.