tsportinthecity

4000 salti nel futuro

Tempo di lettura: 12 minuti

(Photo Credit: profilo Facebook ufficiale Pallacanestro Trieste)

Aver girato la boa dei 4000 abbonamenti per la Pallacanestro Trieste non rappresenta solo lo sfondamento di una soglia psicologica, ma costituisce in primo luogo una risposta, forte e chiara, alla sferzata di novità che ha fortemente caratterizzato gli ultimi dodici mesi del club, una sorta di reset di immagine ancora prima che di risultati sul campo, capace di trasformare una tragedia sportiva subito virata in disaffezione quando non in indifferenza o addirittura in aperta ostilità, in una sorta di isteria collettiva, rendendo la pallacanestro triestina trending topic sui social locali e nazionali e, ciò che più conta, nelle strade, nei bar, negli uffici cittadini. E’, naturalmente, anche un numero clamoroso, che in epoca post Covid con tutto ciò che ne consegue anche dal punto di vista economico, vale forse due volte i 4400 abbonamenti venduti nella prima stagione di Serie A nel 2018, che oltretutto arrivava al culmine di un crescendo rossiniano durato almeno tre stagioni anziché dalle macerie post Latina o Luiss Roma. Anche se mancano i dati ufficiali sulle campagne abbonamenti di tutte le squadre di LBA, è facilmente prevedibile che quello triestino sia un traguardo che pone il club fra i primi due o tre in ambito nazionale in valore assoluto, prescindendo dalla capienza dei rispettivi impianti. La pallacanestro, a Trieste, è tornata di moda e, complice anche le disgraziate stagioni che sta vivendo la Triestina, riporta a palazzo in modo trasversale anche i giovani calciatori oltre che i piccoli cestisti, le famiglie, i teenager ed i pensionati, i VIP da prima fila e gli appassionati di lungo corso, le signore in tubino e tacchi alti e gli ultras in felpa nera, i Triestini come gli Sloveni ed i Bisiachi.

Il basket a Trieste, una moda che viene e che va

Non è, naturalmente, la prima volta che in città si vive questa travolgente monomania: a fine anni ’70 l’Hurlingham con il suo leone e la canottiera verde, i suoi ragazzacci dentro e fuori il campo, le file notturne per accaparrarsi uno dei pochissimi biglietti disponibili in Galleria Protti e le calche caotiche davanti alle porte di vetro sei ore prima della partita, segnò un’epoca, quella dei lustrini e della disco music, dei jeansinari con le mogli impellicciate a fare le sfilate davanti alla prima fila a partita iniziata, i notai a sgolarsi in piedi sotto canestro, i giocatori americani idolatrati come rockstars con annesse groupies. Era un’epoca un po’ naif, a suo modo pionieristica, fatta di tanto entusiasmo e moltissima improvvisazione, un’epoca nella quale Trieste doveva ancora conoscere i suoi tempi peggiori e viveva la sua opulenza di confine incurante, o forse inconsapevole, del caos che stravolgeva il resto d’Italia a cavallo del decennio. Scoppiò tutto come una bolla di sapone quando la cocaina e gli approcci con le signore sbagliate misero di fatto le suddette rockstars sul primo aereo per New York. Certo, il palazzetto di Chiarbola continuava ad essere pieno (del resto non è che fosse un’impresa), ma la magia sembrava essersi dissolta come le luci al termine di una serata al Big Ben.

Cinque anni dopo la fine dell’era neroverde arrivò in città un imprenditore della Marca con il suo utopico sogno di aggredire la supremazia dei maglioni Benetton sul campo da basket e sul mercato dell’abbigliamento. Ci vollero otto anni di cadute, lacrime e risalite per ricreare quell’atmosfera di trepidante attesa, di locali pieni per assistere alle prime partite trasmesse da Telepiù con le voci di Flavio Tranquillo e Federico Buffa che diventavano più popolari di quelle ormai pensionate di Aldo Giordani e Gianni Decleva. Le finali europee, l’assalto allo scudetto, Chiarbola insufficiente a contenere entusiasmo debordante, la consapevolezza di essere finalmente alla vigilia di un glorioso futuro sportivo tutto da godere. Il progetto Stefanel fu enormemente meno improvvisato rispetto a quello neroverde, ed anzi, specie grazie alla visione di Boscia Tanjevic ed Renzo Crosato, tramutò la clamorosa caduta in Serie B nel trampolino di lancio per giovani atleti che nel giro di un decennio avrebbero fatto la storia dei loro club e della Nazionale Italiana (oltre che di quella Serba). Un entusiasmo, però, inesorabilmente legato ai risultati ed alla forza della squadra, che infatti si afflosciò definitivamente nel momento in cui si materializzò il Grande Tradimento -vicenda nella quale anche l’immobilismo da Prima Repubblica che attanagliava inesorabilmente la città non fu esente da colpe- che portò improvvisamente il progetto a compimento in Lombardia.

Per assistere alla terza ondata di entusiasmo, con qualche punta di fanatismo, si dovette attendere altri 22 anni: l’avvento di Alma, dapprima come main sponsor, poi come proprietaria unica del club, riportò in modo clamoroso il PalaTrieste al centro del villaggio. Nei tre anni di travolgente crescita di popolarità, venne scientificamente plasmato un giocattolo accattivante, fatto di giocatori la cui immagine fresca e vicinissima alla gente li rendeva letteralmente parte della comunità alla stregua di parenti o amici di lunghissima data. Un gruppo di giovani ed innovativi comunicatori venne dedicato a produrre contenuti accattivanti e ben confezionati, che l’avvento dei social rese immediatamente virali, con il conseguente effetto di mettere colori, notizie, immagine (ed abbonamenti) letteralmente addosso alle persone, nelle loro tasche, nelle loro mani in ogni momento del giorno e della notte. Fu creata una fortissima identità di brand, nel quale la gente di ogni età si riconosceva ma che faceva l’occhiolino, in modo sfacciatamente preciso, ai giovani e giovanissimi, in modo lungimirante perchè proprio loro costituiscono la fan base nel medio e lungo periodo. Il modo in cui tutto ciò andò a finire genera ancora gastriti e brividi, e rese la piazza definitivamente scettica e scontrosa, prevenuta ed ipercritica verso tutto ciò che sapeva di pallacanestro.

Ed ora, tocca agli Americani. Americani che investono, americani che ideano, programmano e gestiscono, americani che allenano, americani che tornano ad essere le rockstar dei tempi dell’Hurlingham, perchè anche per questo sono stati scelti. La piazza è dapprima scettica e sospettosa, ma poi risponde, si alza nuovamente dal divano e si stacca dai maledetti servizi in streaming pay per view per riportare il sedere, e la voce, al palazzetto. Certo, si dirà, i risultati. La gente, in Italia, vuole solo i risultati. Possono un mese e mezzo di trionfi primaverili dopo undici mesi di sofferenza ed un inizio abbagliante di campionato in Serie A aver nuovamente fatto detonare la polveriera bagnata? Inutile negarlo, è possibile che abbiano contribuito in modo decisivo: si sa, in Europa, ed in modo particolare nel sud Europa, sul campo tutto è esasperato, ogni singolo possesso è questione di vita o di morte, ogni canestro (e, se è per quello, ogni goal) viene vissuto con trasporto viscerale, il risultato di una singola partita, anche di pre season, può influire sull’umore dei tifosi per un’intera settimana. Caratteristica difficile da comprendere, figurarsi da metabolizzare, per un general manager che ha trascorso quasi interamente nell’NBA la sua esperienza professionale, per non parlare di un allenatore che fino al luglio del 2023 aveva condotto esclusivamente squadre di universitari negli Stati Uniti. Ma una delle caratteristiche migliori di Michael Arcieri e Jamion Christian è quella di saper ascoltare, osservare e capire in fretta, oltre che di agire di conseguenza con una pragmaticità tutta anglosassone. Le parole pronunciate da Arcieri per celebrare il raggiungimento del grande risultato della campagna abbonamenti possono perciò essere tranquillamente lette non come la solita accozzaglia di banali frasi di circostanza, bensì come una vera e propria dichiarazione programmatica, che riassume ciò che la Pallacanestro Trieste ha tentato di fare ed è riuscita a realizzare finora, cosa si impegna a fare d’ora in poi e, soprattutto, in cosa vuole trasformarsi.

“Quattromila” è molto più di un numero impressionante. È un distintivo d’onore che indossiamo con orgoglio, un’eredità che lasciamo ai nostri figli; una dichiarazione della nostra città e dei nostri appassionati tifosi che il basket è il nostro patrimonio, una gioia che ci unisce, e che la Pallacanestro Trieste non è un qualcosa che si guarda una volta alla settimana, ma uno stile di vita, da perseguire e condividere.⁣

Il salto culturale rispetto al passato è evidente. Il basket vuole essere parte della comunità ancor prima che un articolo sul giornale che racconta la partita. Un simbolo che identifichi la città a prima vista (e viceversa) ben oltre la necessità di segnare un canestro più degli avversari. Una componente del vivere civile nei momenti importanti, quelli più gioiosi come in quelli tristi, nelle celebrazioni come nelle feste, portando giocatori e maglia oltre i muri del palazzetto in mezzo alla gente non solo per mescolarsi ai tifosi nella vita quotidiana, nei ristoranti o nei supermercati, ma anche e soprattutto per veicolare messaggi positivi che riguardino i più deboli, l’ambiente, i bambini e gli anziani, le associazioni sportive dilettantistiche ed il tessuto imprenditoriale. Una comunione che tatui in modo permanente la squadra di basket sulla pelle di Trieste in modo da rendere il binomio qualcosa di familiare ed immediatamente riconoscibile. Michael Arcieri arrivò a Trieste nel luglio del 2023 e ci mise una settimana a comprendere che la Pallacanestro Trieste si era rinchiusa in una torre d’avorio, e veniva scorta da lontano solo se, e quando, riusciva a mietere qualche successo sul campo, scomparendo un minuto dopo. Creò il Community And Fan Engagement Department (e vi pose come responsabile una persona di sua assoluta fiducia….) che alla lunga si è rivelato il motore centrale del cambiamento di mentalità, una fucina di idee e di iniziative dapprima guardate con l’ironico sospetto tipico dei triestini nei confronti di qualsiasi novità, poi vero e proprio trait d’union fra club e tifosi. Con il passare dei mesi è mutato progressivamente anche l’approccio alla partita, sempre più “evento sportivo” inteso come spettacolo, dal pre partita, all’half time show. Il DJ che spara musica a palla (attenzione che la playlist proposta da Selekta non sarà la stessa del Ceghedaggio anelata dagli attempati abitanti di certe zone di tribuna, ma è recitata parola per parola e ballata dai più giovani, dai frequentatori di social meno datati di Facebook, dai giocatori stessi: open your mind!), la drumsquad, il tentativo di utilizzare l’illuminazione per quello che i lampioni trentennali appesi alla volta del palazzetto permettono di fare, il cubone stesso sul quale scorrono clip ben pensate ed ammiccanti, un merchandising tornato ad essere attrattivo ed identificante. E poi, la nuova livrea del parquet, le divise di un rosso vintage e ruffiano. Una veste grafica, una brandizzazione asciutta ma riconoscibile, essenziale ma moderna, contenuti multimediali progettati in modo agile e giovane, in stile “gangsta” urbano come usa nelle città d’avanguardia culturalmente più progredite rispetto alla nostalgia per l’Austria-Ungheria. Infine, naturalmente: gli attori protagonisti, scelti intelligentemente prima per la loro perfetta calzabilità alla trasformazione del “mondo Pallacanestro Trieste” che per le loro qualità tecniche, peraltro indubbiamente superiori a tutto ciò a cui Trieste era abituata (rassegnata?) negli ultimi quarant’anni. Sono tutti tasselli di un puzzle, un disegno ben preciso e ben chiaro nella mente di chi lo ha pensato.

Jeff Brooks, una delle nuove “rockstars“. (Photo Fabio Angioletti)
Lo stadio Olimpico di Roma

Mike Arcieri è un visionario che si è inventato un nuovo mondo? No. E’ “solo” abilissimo nel saper scegliere il meglio di ciò che il suo curriculum e la sua genetica capacità di osservatore gli permette di coniugare con il budget che ha a disposizione. L’analogia più lampante ed abbagliante a ciò che vorrebbe diventare la Pallacanestro Trieste, una volta filtrata attraverso le debite proporzioni, è ciò che negli ultimi dieci anni è diventata l’AS Roma, che guarda caso vanta una proprietà molto americana. La Roma è da sempre un simbolo di una città che vive di calcio in ogni vicolo, in ogni locale, in ogni casa, sulle braccia tatuate dei suoi tifosi, nei fiumi di parole delle decine di radio e TV locali specializzate in un solo argomento: i giallorossi. Un amore viscerale per una squadra che ha vinto pochissimo a distanze generazionali nel tempo, una squadra che fa soffrire molto più che gioire i suoi seguaci. L’avvento della famiglia Friedkin nel 2020, però, ha fatto assumere al fenomeno una dimensione completamente diversa, modificando alla base il tipo di esperienza vissuta dai tifosi allo Stadio Olimpico, una esperienza che trascende il semplice evento sportivo. Nonostante l’Olimpico sia una struttura pubblica non di proprietà del club (esattamente come il PalaTrieste), sono stati fatti importanti investimenti per renderlo più accessibile e confortevole. Sono stati introdotti servizi tecnologici, come ad esempio la connettività Wi-Fi potenziata per permettere ai tifosi di condividere in tempo reale l’esperienza della partita attraverso i social media, moltiplicando a dismisura la visibilità del prodotto. Inoltre, sono stati migliorati i servizi interni, con più opzioni di ristorazione e spazi per il relax, ispirati agli stadi di nuova generazione negli Stati Uniti. Il team Friedkin ha puntato decisamente a creare un’esperienza più coinvolgente, con eventi pre e post-partita per intrattenere i tifosi. Certo, se hai Antonello Venditti che ti scrive l’inno è abbastanza facile che la gente lo impari e lo canti a squarciagola, ma l’atmosfera che si crea ogni volta fa venire i brividi anche agli avversari. Questo approccio, tipico delle manifestazioni sportive statunitensi come l’NBA, ma anche la NFL, propone spettacoli musicali, show di luci, con un’attenzione crescente agli eventi per le famiglie, cuore fondamentale della nuova tifoseria giallorossa. Lo stadio, quindi, si propone come un luogo dove trascorrere l’intera giornata, non solo un paio d’ore per assistere alla partita, amplificando a dismisura quel senso di appartenenza e di identificazione reciproca con la città che rende la Roma un prodotto vendibile, e venduto, letteralmente in tutto il mondo. Poi, ovviamente, gli ingaggi di allenatori come Mourinho o giocatori come Dybala sono indispensabili perchè il core business, alla fine, è il pallone, ma il risultato, ormai da cinque anni, è sempre, inesorabilmente quello, indipendentemente dal punteggio finale, dalla posizione in classifica, dalle prestazioni più o meno deludenti, dal tipo di manifestazione (amichevole, coppa, pre campionato, derby o campionato contro l’Empoli): lo Stadio Olimpico è sempre, invariabilmente, esaurito e ribollente, festante e colorato, i Roma Store in centro sono presi d’assalto dai turisti giapponesi come i negozi di souvenir che vendono Colossei di plastica, e le partite della Roma sono acquistate dalle TV in ogni angolo del globo.

E’ chiaro che il paragone stride, le due città hanno dimensioni imparagonabili, la storia della Roma ha radici ben più profonde nella comunità dell’Urbe rispetto a quelle della Pallacanestro a Trieste sotto San Giusto: però il concetto di base è quello, attrarre con l’esperienza vissuta al palazzetto più persone possibile, in modo che quella esperienza venga tramandata di bocca in bocca, di persona in persona così da divenire virale.

La curva Sud dello Stadio Olimpico prima di ogni partita della Roma
La Zalgirio Arena

Vogliamo guardare ad un modello da poter prendere come benchmark in modo ancora più chirurgico? In Italia la città di Bologna costituisce un unicum inimitabile: fa storia a sé, inutile tentare di scimmiottare qualcosa che non può essere replicato, anche se per certi versi riuscirci sarebbe un miraggio. Usciamo dai confini del Belpaese, anche perchè la proprietà americana ha il mondo intero come possibile riferimento.

Kaunas è una cittadina universitaria lituana di 300 mila abitanti, la seconda per importanza nel piccolo paese baltico, posta a metà strada fra la capitale Vilnius ed il confine bielorusso. E’ sede di una delle più rinomate università di indirizzo scientifico in Europa, fucina dei migliori ingegneri di epoca sovietica. E’, anche, città di nascita di alcuni dei più celebrati campioni di basket della storia di questo sport a livello mondiale, alcuni dei quali protagonisti anche in NBA in un’epoca in cui l’URSS negli Stati Uniti era considerata l’Impero del Male. Nel 2011 vi fu costruito un palazzo dello sport da 15.000 posti, la Žalgirio Arena, che ospita le gesta della locale squadra di pallacanestro, lo Žalgiris, oggi guidato dal coach italiano Andrea Trinchieri. Anche lo Žalgiris a Kaunas, come la Roma nella capitale italiana, è molto di più di una squadra: da sempre, è una vera e propria religione, un orgoglio nazionale perchè la squadra era storicamente una delle pochissime in grado di competere, battendole regolarmente, con le arcinemiche corazzate governative russe. I tifosi vivono le partite in modo viscerale, con un tifo caratterizzato da un incrollabile senso di resistenza alle difficoltà, connaturato alla mentalità lituana. Esultano rumorosamente per le vittorie ma festeggiano nei locali della città anche in caso di sconfitta. Il risultato passa completamente in secondo piano, non è che non importi, semplicemente non è il motivo principale per il quale i cittadini di Kaunas vanno all’Arena per sostenere lo Zalgiris. Ma non basta: l’Arena, dal 2011 quando fu inaugurata, non ha MAI fatto registrare qualcosa meno di un sold out ad ogni singola esibizione dei biancoverdi lituani. Le tribune e le curve non sono occupate da avanzi di galera usciti da qualche penitenziario siberiano per uccidere i rivali nel derby con il Vilnius: ci vanno le famiglie, i teenager, le classi delle scuole elementari, i pensionati, gli studenti, i nonni con i nipoti. E’ sufficiente la fede? L’amore per la squadra? L’identificazione nazionalista? No. Situata sulle rive del fiume Nemunas, l’arena è facilmente raggiungibile da ogni punto di Kaunas e costituisce il vero simbolo di modernità per la città. La sua struttura è all’avanguardia, offre una visibilità perfetta da ogni settore, così come una vasta gamma di servizi per i tifosi, tra cui punti ristoro e gli shop per il merchandising ufficiale della squadra. La partita in sé è vissuta come un vero e proprio evento comunitario. Prima della palla a due il palazzo si riempie di musica, video spettacolari proiettati sugli schermi giganti, mentre l’ingresso dei giocatori avviene in un’atmosfera quasi teatrale, accompagnato da luci e fuochi d’artificio. Gli spettatori sono completamente immersi nell’evento, con momenti di interazione coreografica ed un frastuono assordante e continuo. Tradizione e modernità, sport e spettacolo, cultura e sport, identificazione e divertimento, pallacanestro e visione nel futuro: lo Žalgiris, oggi, è Kaunas stessa. Di conseguenza, in Europa nessuno riesce a pensare alla città senza accomunarla alla sua squadra da basket.

La Žalgirio Arena di Kaunas durante l’ingresso in campo dello Zalgiris (photo credit: X Official Profile BC Zalgiris Kaunas)
E Trieste?

Trieste ha ancora molta strada da fare, centinaia di chilometri, in fatto di cultura dello sport, accettazione del cambiamento, pazienza ed educazione. Ma ha anche il lusso di possedere già metà dell’equazione, quella pronta a portarla nel futuro sia dal punto di vista sportivo che da quello spettacolare. Ovviamente la struttura comunale teatro delle partite comincia a mostrare i segni del tempo anche dal punto di vista del concept oltre che da quello dei servizi e della tecnologia, oltretutto con una amministrazione che per un motivo o per l’altro non brilla per lungimiranza nella cura dell’impiantistica sportiva. Ma, anche così, ci sono ampi margini per migliorare l’esperienza per gli utenti. L’altra metà dell’equazione può contare su numeri fra i migliori in Italia e sull’entusiasmo, ma è un entusiasmo che è ancora troppo ancorato, in modo autolesionista e provinciale, ai risultati, che rendono ondivago l’indice di gradimento del club. Nel momento stesso in cui la città si renderà conto che la squadra di basket è un patrimonio SUO, un ambasciatore di messaggi positivi di Trieste nel mondo, un giocattolo da difendere, preservare e sostenere come fosse un raro esemplare di panda albino indipendentemente dalla percentuale nel tiro da tre, allora Kaunas potrà cessare di essere una landa semi leggendaria al pari della Terra di Mezzo.