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3. Dwight Jones, il vice Jabbar

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Ci sono giocatori che più di altri hanno scatenato entusiasmo, trascinato la propria squadra a vittorie impensabili, riempito da soli palazzetti. E poi ci sono ragazzi che per motivi diversi, per le loro storie incredibili, per le vie tortuose che li hanno portati a Trieste o strappati alla città, per il loro modo unico di intendere la vita e la pallacanestro hanno acceso la fantasia dei tifosi, lasciando un segno indelebile nella lunga epopea del basket moderno cittadino. Sono tutti arrivati da lontano, tutti reduci da carriere stratosferiche o giovani promesse che verranno mantenute solo dopo aver lasciato San Giusto. Talvolta sono storie tragiche, altre volte esaltanti, raramente vincenti. Il lieto fine non fa necessariamente parte di questo racconto: ma il fil rouge che li lega tutti è il fatto di essere tatuati nella memoria collettiva di chi segue la pallacanestro alabardata.

Dwight Jones, #9, nella finale olimpica del 1972

9 settembre 1972, piena guerra fredda. Siamo alla Rudi Sedlmayer Halle di Monaco di Baviera. Sono Olimpiadi drammatiche, l’incursione di alcuni terroristi palestinesi si è appena risolta in una tragedia con la morte di 11 atleti israeliani. In una atmosfera surreale si gioca la finale olimpica di pallacanestro, a contendersi l’oro sono gli Stati Uniti, che in tutte le edizioni delle Olimpiadi da quando il basket è stato introdotto nel 1936 hanno vinto 63 partite senza perderne nessuna, e l’Unione Sovietica campione d’Europa guidata in campo dal mitico Sergej Belov. Come da tradizione gli Americani, che hanno una fiducia incrollabile nella loro superiorità, si presentano ai giochi olimpici con una squadra tutta composta da giovani talenti universitari. Fra di loro c’è un giocatore, proveniente dagli Houston Cougars, che nelle otto partite prima della finale, tutte facilmente vinte compresa quella contro l’Italia, si è rivelato un vero leader, realizzando più punti e catturando più rimbalzi di tutti. Dwight Elmo Jones è l’arma in più di coach Henry Iba, e dovrà esserlo anche in una finale che si preannuncia in salita. Anche perché i sovietici quella finale vogliono vincerla ad ogni costo, con le buone o con le cattive: ed infatti, individuato il nemico pubblico numero uno, gettano in campo un certo Ivan Dvornij, una riserva che fino a quel momento non aveva giocato nemmeno un minuto. Dvornij ha un unico compito, sul quale è stato ben istruito: deve provocare l’americano più forte. Dwight Jones ci casca, reagisce e viene espulso insieme allo sconosciuto avversario, ma a rimetterci sono esclusivamente gli statunitensi. Quell’oro lo vincono i sovietici con un canestro di Belov che arriva tre secondi oltre il quarantesimo minuto e che rimarrà per sempre il più contestato della storia della pallacanestro. 

Ma la carriera di Jones non viene di certo segnata dall’epocale sconfitta di Monaco. Ai draft del 1973 viene scelto alla nona chiamata assoluta dagli Atlanta Hawks. In Georgia giocherà le successive tre stagioni da protagonista, prima di passare prima a Houston, dove si fermerà per altri tre anni, poi ai Chicago Bulls, fino al 1983. Dopo 10 anni di carriera in NBA, 732 partite e 6200 punti segnati, approda ai Lakers di Jerry Buss e coach Pat Riley, quelli del Forum di Inglewood, dello show time, di Magic Johnson, Kareem Abdul Jabbar, Michael Cooper e di quel Bob McAdoo che dopo tre anni farà le fortune dell’Olimpia Milano. Nel suo ruolo, a 31 anni, vive però nell’ombra di Jabbar, gli vengono concessi solo pochi minuti di garbage time quando la superstar incontrastata dell’NBA decide di potersi sedere a bordo campo. Il proprietario Jerry Buss, nonostante le sole 32 presenze, non ha però intenzione di rinunciare a lui, e lui, nonostante tutto, non pensa nemmeno lontanamente di porre fine alla sua carriera fra i professionisti. 

Dwight Jones Vs Artis Gilmore

Durante l’estate del 1983 alla Pallacanestro Trieste, targata BIC, è tempo di rivoluzione. Dopo una tranquilla salvezza raggiunta nella stagione precedente, nella quale Rudi D’Amico guida un gruppo non certo esaltante di onesti maniscalchi del parquet, illuminati dalla classe di Bertolotti, Valenti e Tonut, a vincere solo le partite che servono per riconfermarsi in A1, il presidente Saporito vuole di più. Licenzia D’Amico e preleva Mario De Sisti dalla panchina di Gorizia, perde Bertolotti e Valenti, rinuncia agli americani Robinson ed Harper. Rimangono solo Carletto Fabbricatore ed Alberto Tonut, arrivano Paolo Lanza, un centro filiforme di 214 cm il cui trasferimento fa più contenta Mestre che De Sisti, il play Marco Palumbo ed il modesto Sandro Goti. Non proprio l’armata invincibile delle intenzioni, le cui fortune dipenderanno, dunque, dal livello degli americani. Ed infatti viene scelto Chris Mc Nealy, un ambito esordiente USA fra i più promettenti e spettacolari, pagato la bellezza di 180 milioni, ma manca il vero crack, la ciliegina in grado di cambiare le sorti della stagione, anche perché la società ha alzato a dismisura le aspettative con gli altisonanti proclami della campagna abbonamenti, durante la quale promette addirittura i playoff. Trieste punta Dwight Jones, contando sulla sua presunta insoddisfazione a Los Angeles. Il proprietario dei Lakers, però, non ne vuole sapere e non risponde nemmeno alle proposte della Overseas Basketball Incorporated, agenzia che rappresenta la società triestina negli Stati Uniti. A quel punto il presidente della OBI, un russo naturalizzato americano che di nome fa Vladimir Cohn, ha una geniale intuizione: per arrivare a Buss deve utilizzare i buoni uffici del tennista del momento, il rumeno Ilie Nastase, grande amico del proprietario dei Lakers. Alla quinta offerta, grazie proprio all’intermediazione di Nastase ed ai buoni uffici del figlio del presidente della Corte Suprema dello Stato di New York, che di mestiere fa il procuratore ed è amico di Cohn, Trieste vince la concorrenza degli altri club italiani che si erano messi sulle tracce del fuoriclasse, e riesce a spuntare il contratto per portare in Italia per tre anni il giocatore che nelle intenzioni è il più grande colpo dai tempi di Marvin Barnes, ma con l’anima candida anziché criminale. De Sisti esulta, ma da subito il rapporto con Jones, e se è per quello anche con il resto della squadra, non è certo idilliaco. Qualcuno comincia a giocare contro l’allenatore o, nel migliore dei casi, per sé stesso: è solo una questione di caratteri forti a confronto, perché De Sisti rimane uno dei tecnici tecnicamente più preparati nella storia della pallacanestro triestina. E’ muro contro muro: la leggenda narra che prima di una partita Jones chiuda il coach fuori dalla porta dello spogliatoio per arringare personalmente i compagni sul piano partita. La pre season è un calvario costellato di pesanti sconfitte, con il nervosismo che sale a livelli di guardia: durante un’amichevole con la San Benedetto Gorizia che avrebbe dovuto essere un “risarcimento” per il rapimento di De Sisti, Dwight Jones e Tom Lagarde danno vita ad un’improvvisato quanto inopportuno incontro di boxe, e dovranno essere separati a forza da compagni e allenatori. La prima parte di stagione è in decisa salita, con cinque partite perse nelle prime sei di campionato. Lo spirito di squadra non esiste, la tensione sale dentro ed attorno al parquet. Dopo soli tre mesi iniziano a girare voci sull’intenzione di Jones di fuggire da Trieste, e qualcuno, sotto sotto, non annegherebbe nelle lacrime se la notizia fosse vera. Il texano, peraltro, non fa nulla per gettare acqua sul fuoco: non si presenta mai davanti a nessuno senza esibire con ostentazione il suo anello dell’NBA con un “13” fatto di diamanti, ed è famoso per non farsi vedere mai in città, richiudendosi con la famiglia nell’appartamento che gli è stato assegnato con persiane sbarrate e lampadine tutte accese. Oltretutto, si aggiunge la sfortuna: Mc Nealy si rompe i legamenti del ginocchio ricadendo male da un rimbalzo, e la sua stagione finisce proprio quando stava cominciando ad ingranare dopo un balbettante inizio. Viene sostituito dal tiratore Alan Hardy, che immediatamente si rivela quanto di più distante dalla mentalità e dai desideri del coach. Jones, che nel frattempo vede nascere al Burlo il figlio Dwight Jr, rimane comunque il grande professionista che è sempre stato: non è felice, non è a suo agio, ma le voci sulla sua presunta fuga sono totalmente inventate. I risultati, però, rispecchiano la situazione fuori dal campo: l’americano fa quello che può, ma non è certo quel crack dominante che ci si aspettava, anche se, da cavallo di gran razza, non fa mai mancare l’impegno: la tecnica e l’esperienza sono inarrivabili, ma a 33 anni il fisico non sorregge le prestazioni di cui ci sarebbe bisogno. La squadra reagisce all’infortunio di Mc Nealy vincendo di un punto dopo due supplementari una delle partite che rimangono nella mitologia del palasport di Chiarbola contro i campioni d’Italia e d’Europa del Bancoroma di Larry Wright, con canestro di Palumbo sulla sirena favorito proprio dal blocco del califfo texano, oltretutto con una azione totalmente diversa dal piano partita spiegato il giorno prima da De Sisti attraverso la consueta cortina di fumo di sigaretta. Ma poi le sconfitte, anche pesanti, si susseguono numerose.

L’atmosfera attorno alla squadra si fa tesa, ed il presidente Saporito, più per disperazione che per preservare la tranquillità di coach e giocatori, decide per il silenzio stampa. Sarà un caso, dal momento che i rapporti fra squadra ed allenatore non migliorano di certo, ma a quel punto cominciano ad arrivare vittorie importanti con Torino, a Cantù, nel derby a Gorizia. Una stagione disastrosa, che stava portando ad una inevitabile retrocessione, si riaccende improvvisamente, grazie soprattutto all’amor proprio dei giocatori di maggior classe, Alberto Tonut e Dwight Jones in testa. Il pubblico torna ad entusiasmarsi e riempire Chiarbola, ma c’è ancora uno scoglio da superare: per salvarsi bisogna vincere una delle ultime due partite di campionato, possibilmente l’ultima in casa contro Napoli, visto che all’ultima giornata è prevista la trasferta sul campo impossibile di Pesaro, e sperare che Forlì e Brescia ne perdano almeno una. Il DS Giorgio Dragan lancia l’idea di distribuire migliaia di bandierine fra il pubblico per aumentare il pathos nel palazzetto, che ribolle di tifo ed entusiasmo. La Febal viene superata 83-77 nonostante una prestazione assurda di Hardy, grazie soprattutto alle giocate di un Dwight Jones tornato quello dello show time californiano. Alla fine, arrivano le attese buone notizie dagli altri campi, e Trieste può festeggiare la salvezza ai danni di Brescia, nonostante la successiva pesantissima, quanto prevedibile, sconfitta sul campo della Scavolini Pesaro. Un disastro che a un certo punto sembrava ineluttabile viene evitato in extremis. Si festeggia sul campo, ma le scorie di una stagione tesa e nervosa soprattutto nei rapporti con l’allenatore lasciano il segno. I giocatori, per accettare di restare a Trieste, chiedono alla società la testa di De Sisti. La società, invece, confermerà De Sisti in panchina e smantellerà l’ossatura della squadra. Dopo una sola stagione viene così rescisso anche il contratto triennale con Dwight Jones, che di certo, comunque, non avrebbe resistito un altro giorno agli ordini del coach. Se ne va anche l’icona del primo basket triestino di vertice nell’era moderna: il gioiellino ormai maturo Alberto Tonut, che tutti davano sulla strada di Milano, prende invece quella della Toscana, finendo alla Peroni Livorno per un miliardo. L’estate successiva vedrà sorgere l’alba di un’era d’oro (e di lacrime) per il basket giuliano, l’arrivo di Bepi Stefanel.

Quella giocata a Pesaro è l’ultima partita della gloriosa carriera di Dwight Jones, che, una volta tornato negli USA, si ritira definitivamente. Diventa un commerciante di automobili di successo: a Houston apre quattro concessionarie della Lincoln. Riappare nel 2012 in un documentario delle ESPN, Silver Reunion, nel quale, assieme ai compagni della spedizione olimpica del 1972, rievoca gli eventi che portarono ad una delle più controverse, storiche e brucianti sconfitte nello sport mondiale, spiegando la decisione di non salire sul podio a ritirare la medaglia d’argento. 

Dwight Jones muore per problemi cardiaci a Houston il 25 luglio del 2016, a soli 64 anni.